Carla Accardi, Grigio e colori |
Riconoscendo
fin da giovanissima, con infallibile istinto d'artista,
nell'astrattismo la propria linea di ricerca, Carla Accardi ha dato
vita per oltre sessant'anni ad una produzione ampia e rigogliosa, mai
monotona, ripetitiva o manierata, perché sempre scandita da
propositi di costante approfondimento critico delle istanze formali e
metodologiche messe in campo, un approfondimento critico che l'ha
portata a sviluppare un discorso stilistico tanto unitario e coerente
nei risultati, quanto aperto e polivalente nelle varie modalità
d'approccio al fatto propriamente artistico.
Da quando
mosse i primi passi nel 1947 in seno al gruppo piuttosto eterogeneo
denominato Forma 1
fino agli ultimi lavori, ciò che ha
sempre colpito nella sua arte è stata quella espansione “pneumatica”
di una iconosfera luminosa e palpitante solcata da superfici
cromatiche, incroci spaziali, sovrimpressioni figurali che trovano
tutti il loro momento aurorale nell'azzeramento tanto della matrice
simbolica quanto delle coniugazioni analogiche dell'immagine, esibita
sempre in una teatralità di campi segnici i quali danno profondità
e respiro senza alcuna forzatura della rappresentazione. Carla
Accardi infatti lungo tutto l'arco della sua carriera sembra aver
contestato e perturbato la semplice bidimensionalità della tela
seminando su di essa le felici avventure di una immagine portata a
maturazione mediante una duplice polarità di tensioni: da una parte
la secca istantaneità del segno, flessuoso e ricorsivo, si sposa con
una durata illimitata della traccia grafica che essa deposita dietro
di sé, strutturando una sottile dinamica tra opposti che quanto più
si respingono tanto più rendono l'opera vivace e animata; dall'altra
parte troviamo invece il moto ondoso di un segno che, pur avendo
assimilato in sé il principio semi-organico della sua diuturna
rigenerazione, in ogni caso si dispone sul piano col ritmo ambiguo di
forme che deflagrano di fronte allo spettatore per andare a morire
lontano, spegnendosi nei recessi appena intravisti di una immagine
tanto delicata quanto potente.
L'astrattismo
dell'Accardi pertanto si è sempre mosso rasoterra alla tradizione
poliglotta dell'arte
contemporanea: conoscitrice acuta e attenta di
tutta la temperie più o meno geometrizzante proveniente dalla Russia
– tramite ne era stato il sommo Angelo Maria Ripellino – vicina,
almeno agli inizi, ai grafismi di Capogrossi, la sua poetica ha
sempre cercato di dialogare attraverso i tempi e attraverso i luoghi,
fondendo le nuove istanze dell'avanguardia storica con una serie di
suggestioni formali derivate dalla tradizione medio-orientale, in una
sorta di eclettismo figurativo che riusciva a associare
all'evocazione erudita l'impeto della ricerca in fieri, sempre al
passo coi tempi, mai sottratta al confronto col presente.
Accardi, allestimento per segno e trasparenza |
La stessa
cromia delle sue tele è andata sempre più arricchendosi e
espandendosi, fin dalle raffinate intelaiature bicrome dei primi
lavori, in una assimilazione ponderata e precisa del dato coloristico
proiettato nel suo dedalico universo di éléments-signes
– come li definì Michel Tapié
– coll'intento deliberato di creare all'interno delle molteplici
sovrapposizioni dei tratti vaste e ineffabili risonanze spaziali in
seno alle quali assorbire lo sguardo e il corpo dell'osservatore, in
una specie di immagine-ambiente ove l'occhio potesse essere la
superficie filtrante entro cui far scorrere la stessa materia
cromatica, in una sorta di alleggerimento lirico del supporto, che
veniva ad essere non più semplicemente un quadro davanti allo
spettatore, ma una immagine calata nello osservatore. Matisse e
Kandisky convivono nella sua pittura; ma anche Vedova e le influenze
più o meno marcate dell'Abstraction-création
giungono in essa a trasfondersi senza mai collidere o stridere,
sempre invece docilmente attratte verso un soffuso amalgama di
possibilità grafiche che trovano nell'aprospettivismo delle
soluzioni il loro denominatore comune.
Ma
questo aprospettivismo non viene vissuto come una perdita di
concretezza: qui è il segno ad essere puramente creativo e
costruttivo, così che la sua spigliata propensione a farsi
territorio vibrante d'una rappresentazione puntualmente sgravata dal
peso della sua stessa presenza non nega il mondo o la realtà, ma
piuttosto li fonda, li sostanzia in levità e grazia, li enuncia
parafrasandoli in una liquida cosmografia di trasmutazioni e
slittamenti, in cui la figura non è il punto d'arrivo, ma solo il
luogo analitico di un passaggio che carica il segno di nuove energie
propulsive nella sua serpentinata interlocuzione col fondo della
tela, ove la circolarità del tutto e la lotta per trattenere
«l'iniziale
vibrazione entro i confini del linguaggio, proliferano in un doppio
senso: quello ascensionale della finitezza e quello illimitato e
discendente in un infinito che si può solo sospettare»,
per citare Bonito Oliva.
Carla
Accardi se n'è andata a novant'anni qualche giorno fa, chiudendo una
delle parabole più lunghe e gloriose dell'arte italiana del
Novecento, lasciando dietro di sé un'opera che si situa precisamente
all'intersezione di molte poetiche e che trova la propria assoluta
originalità nell'identificarsi con un linguaggio, il quale «non
si lascia mai catturare dal proprio assetto formale, poiché la forma
qui è la soglia attraverso cui l'immaginario declina le proprie
attitudini» [1],
come aveva ben visto ancora Bonito Oliva nel saggio-manifesto della
Transavanguardia intitolato Il
sogno dell'arte,
sogno a cui Carla Accardi ha dedicato una intera esistenza.
NOTE
1. A. Bonito Oliva, Il sogno dell'arte, Spirali/Vel, Milano, 1981, p. 127.
NOTE
1. A. Bonito Oliva, Il sogno dell'arte, Spirali/Vel, Milano, 1981, p. 127.