martedì 26 agosto 2014

Carla Accardi, l'arabesco e l'idea...

Giuseppe Crivella

Carla Accardi, Grigio e colori
Aveva fatto dell'arabesco la sua cifra stilistica imperitura, la firma inconfondibile della sua estetica votata ad un astrattismo arioso e gentile – mai viscerale o impulsivo come quello di Pollock, di Hartung o di tanto informel d'oltralpe – ma sempre invaso dalla grazia argentina e sospesa di una evocazione lirica, nelle cui policrome sinuosità Carla Accardi sembrava voler smarrire la propria identità personale, per recuperarne forse una più vasta e profonda, quella antropologica e archeologica della sua Sicilia orientaleggiante, dove era nata nel 1924.
Riconoscendo fin da giovanissima, con infallibile istinto d'artista, nell'astrattismo la propria linea di ricerca, Carla Accardi ha dato vita per oltre sessant'anni ad una produzione ampia e rigogliosa, mai monotona, ripetitiva o manierata, perché sempre scandita da propositi di costante approfondimento critico delle istanze formali e metodologiche messe in campo, un approfondimento critico che l'ha portata a sviluppare un discorso stilistico tanto unitario e coerente nei risultati, quanto aperto e polivalente nelle varie modalità d'approccio al fatto propriamente artistico.
Da quando mosse i primi passi nel 1947 in seno al gruppo piuttosto eterogeneo denominato Forma 1 fino agli ultimi lavori, ciò che ha sempre colpito nella sua arte è stata quella espansione “pneumatica” di una iconosfera luminosa e palpitante solcata da superfici cromatiche, incroci spaziali, sovrimpressioni figurali che trovano tutti il loro momento aurorale nell'azzeramento tanto della matrice simbolica quanto delle coniugazioni analogiche dell'immagine, esibita sempre in una teatralità di campi segnici i quali danno profondità e respiro senza alcuna forzatura della rappresentazione. Carla Accardi infatti lungo tutto l'arco della sua carriera sembra aver contestato e perturbato la semplice bidimensionalità della tela seminando su di essa le felici avventure di una immagine portata a maturazione mediante una duplice polarità di tensioni: da una parte la secca istantaneità del segno, flessuoso e ricorsivo, si sposa con una durata illimitata della traccia grafica che essa deposita dietro di sé, strutturando una sottile dinamica tra opposti che quanto più si respingono tanto più rendono l'opera vivace e animata; dall'altra parte troviamo invece il moto ondoso di un segno che, pur avendo assimilato in sé il principio semi-organico della sua diuturna rigenerazione, in ogni caso si dispone sul piano col ritmo ambiguo di forme che deflagrano di fronte allo spettatore per andare a morire lontano, spegnendosi nei recessi appena intravisti di una immagine tanto delicata quanto potente.
L'astrattismo dell'Accardi pertanto si è sempre mosso rasoterra alla tradizione poliglotta dell'arte
Accardi, allestimento per segno e trasparenza
contemporanea: conoscitrice acuta e attenta di tutta la temperie più o meno geometrizzante proveniente dalla Russia – tramite ne era stato il sommo Angelo Maria Ripellino – vicina, almeno agli inizi, ai grafismi di Capogrossi, la sua poetica ha sempre cercato di dialogare attraverso i tempi e attraverso i luoghi, fondendo le nuove istanze dell'avanguardia storica con una serie di suggestioni formali derivate dalla tradizione medio-orientale, in una sorta di eclettismo figurativo che riusciva a associare all'evocazione erudita l'impeto della ricerca in fieri, sempre al passo coi tempi, mai sottratta al confronto col presente.
La stessa cromia delle sue tele è andata sempre più arricchendosi e espandendosi, fin dalle raffinate intelaiature bicrome dei primi lavori, in una assimilazione ponderata e precisa del dato coloristico proiettato nel suo dedalico universo di éléments-signes – come li definì Michel Tapié – coll'intento deliberato di creare all'interno delle molteplici sovrapposizioni dei tratti vaste e ineffabili risonanze spaziali in seno alle quali assorbire lo sguardo e il corpo dell'osservatore, in una specie di immagine-ambiente ove l'occhio potesse essere la superficie filtrante entro cui far scorrere la stessa materia cromatica, in una sorta di alleggerimento lirico del supporto, che veniva ad essere non più semplicemente un quadro davanti allo spettatore, ma una immagine calata nello osservatore. Matisse e Kandisky convivono nella sua pittura; ma anche Vedova e le influenze più o meno marcate dell'Abstraction-création giungono in essa a trasfondersi senza mai collidere o stridere, sempre invece docilmente attratte verso un soffuso amalgama di possibilità grafiche che trovano nell'aprospettivismo delle soluzioni il loro denominatore comune.
Ma questo aprospettivismo non viene vissuto come una perdita di concretezza: qui è il segno ad essere puramente creativo e costruttivo, così che la sua spigliata propensione a farsi territorio vibrante d'una rappresentazione puntualmente sgravata dal peso della sua stessa presenza non nega il mondo o la realtà, ma piuttosto li fonda, li sostanzia in levità e grazia, li enuncia parafrasandoli in una liquida cosmografia di trasmutazioni e slittamenti, in cui la figura non è il punto d'arrivo, ma solo il luogo analitico di un passaggio che carica il segno di nuove energie propulsive nella sua serpentinata interlocuzione col fondo della tela, ove la circolarità del tutto e la lotta per trattenere «l'iniziale vibrazione entro i confini del linguaggio, proliferano in un doppio senso: quello ascensionale della finitezza e quello illimitato e discendente in un infinito che si può solo sospettare», per citare Bonito Oliva.
Carla Accardi se n'è andata a novant'anni qualche giorno fa, chiudendo una delle parabole più lunghe e gloriose dell'arte italiana del Novecento, lasciando dietro di sé un'opera che si situa precisamente all'intersezione di molte poetiche e che trova la propria assoluta originalità nell'identificarsi con un linguaggio, il quale «non si lascia mai catturare dal proprio assetto formale, poiché la forma qui è la soglia attraverso cui l'immaginario declina le proprie attitudini» [1], come aveva ben visto ancora Bonito Oliva nel saggio-manifesto della Transavanguardia intitolato Il sogno dell'arte, sogno a cui Carla Accardi ha dedicato una intera esistenza.

NOTE
1. A. Bonito Oliva, Il sogno dell'arte, Spirali/Vel, Milano, 1981, p. 127.