giovedì 3 luglio 2014

Imago imaginum. Su un capolavoro dimenticato di Maya Deren

Crivella Giuseppe

Un fotogramma del film
Che cosa sia di preciso Meshes of the Afternoon [1] probabilmente non lo sapremo mai.
Non basta infatti derubricarlo come un film sperimentale che indulge in soluzioni prossime alla inafferrabile poetica surrealista e tantomeno può risultare soddisfacente parlarne come di una pellicola d'avanguardia il cui senso si riduce ad una ardita messa in opera di tecniche registiche che trovano unicamente nella loro tautologica esibizione qualche elemento di legittimazione. Ancora oggi pertanto Meshes of the Afternoon “visita” il nostro sguardo sfidando il nostro pensiero ad uno sforzo di comprensione estenuante e felice.
Ciò accade perché questo sorprendente cortometraggio del 1943 si presenta innanzitutto come un teatro fluttuante e metamorfico, dove scabre embolie di simboli si tramutano ora in matrici mutile di emanazioni epifaniche private apparentemente d'ogni organicità e struttura, ora in un accecato eccesso di reiterazioni che arrivano ad estenuare le immagini stesse deputate a veicolare la dimensione ricorsiva e asfittica del labilissimo plot, lasciandole così colare a picco nel doppio fondo di una ressemblance [2] ostinatamente ibridata con l'indefinita estinzione dell'oggetto, negato non solo nel suo portato funzionale ma anche e soprattutto prosciugato d'ogni vettorialità segnica.
Una irradiazione dunque duplicemente debilitata nelle forme d'un crollo concentrico infetta con insistenza ogni movimento ragionativo, puntualmente convertito in scardinamenti percettivi i quali finiscono con l'assieparsi in un vibratorio viluppo di visioni invadenti l'obliqua interminabilità dell'occhio, tramutando quest'ultimo in un avvolgente paesaggio ove l'invisibile sembra oscillare tra il fisicamente sommerso e lo psichicamente rimosso, in una specie di suolo liquido prossimo alla ebollizione sulla cui increspata superficie sono proprio i riflessi a conservare la dura consistenza degli oggetti [3].
È grazie a questo serrato lavoro sul modo di far apparire le cose, come fossero in preda ad una graduale scomparsa, che Maya Deren riesce a far subentrare al semplice effetto di dissolvenza – se non di dissoluzione materiale – il fitto splendore di una immagine assoluta, sideralmente solitaria nella propria elusiva forza d'affermazione, la quale infinita si cifra di spettralità tanto slegate quanto ricorsive, così che il miraggio funziona allo stesso tempo sia come allucinazione perentoria sia come ipotesi insidiosa d'uno scenario di semantiche ormai dismesse o mai neppure intraviste, esiliate senza resto tra la scomparsa e lo strappo praticato nel reale, quasi ad ottenere una medusea saturazione dell'essere sorpreso a trascolorare nel geometrico tracollo di sembianti ottenebrati dal pallore dell'indistinto che lentamente annega tutto.
L'immagine ora non è più il mansueto precipitato di una percezione, ma diviene inconscio pulviscolo di incrinature sciamanti lungo il poroso verso del pensiero. Maya Deren, denunciando la sua vicinanza e i suoi debiti nei confronti di Man Ray e Jean Epstein [4]– ma non è da escludere una marcata influenza della scuola russa sulla sua formazione –, sa che lo sguardo è una esplosione reticolare di flussi eccentrici, confluenze e contrazioni che si incardinano in mobili quadri mentali, esposti sempre ad una pulsazione filamentosa di segmenti incongrui, i quali vanno a forgiare il discorso filmico includendo così tra le proprie regole di costruzione tutti i destrutturati livelli di verbigerazione visiva.
Il cinema di Maya Deren si delinea quindi come una sorta di penetrazione chirurgica nelle giacenze inquiete
Fotogramma della sequenza del giglio
dell'immaginario [5], il quale però non è più sentito come una zona d'ombra da cui far emergere cumuli di visioni, ma piuttosto esso viene ora avvertito quale sotterranea corrente di energie tensive e verticali nel cui impetuoso estrinsecarsi tutta una nuova versione del nostro aprirci al mondo è sperimentata e messa in pratica.
Ecco allora che una rovente massa allucinogena [6] di sequenze si incurva tutta verso dei centri di attrazione e raccordo vincolati l'uno all'altro secondo una proliferante trama di relazioni strutturate per interruzioni sovrapposte e incrociate, le quali, quasi sotto la pressione di un inedito inconscio connettivo, corrode la densa trasparenza dello sguardo aprendo in esso la lunga crepa sul cui irregolare bordo cecità e visione si fanno assurdamente sinonimi, diventano dati equipollenti, intercambiabili, realizzando una sorta di fecondo spasmo, dove ad essere chiamata in causa non è più la antica antinomia di apparenza e realtà ma l'allineamento di oggetto-percezione-ricordo [7], così che l'elusivo imporsi del primo nella sfaccettata prensione della seconda, la quale trapassa, quasi in forza di una digestione mentale, nei meandri infranti del terzo, non si dia più come un processo stabile e spontaneo, ma sia costantemente cariato dall'interno da un capillare frastagliarsi delle immagini che entrano di volta in volta in gioco nei tre processi.
Ciò che sorprende in un film quale Meshes of the Afternoon è che in esso è abolita ogni nozione di origine pura all'interno della composizione ad anello che chiude e al tempo stesso spalanca la vicenda in una indefinita teoria di ritorni e sovrapposizioni resi tanto più evidenti all'interno dei regimi narrativi adottati quanto più evasivi rispetto ad ogni principio di concordanza piena tra le varie riprese dei medesimi episodi.
Si prenda ad esempio la deposizione del giglio all'inizio: questa non è altro che una lucidissima ma imperscrutabile prefigurazione mortuaria del corpo esanime della stessa Maya Deren che chiude il film; e ugualmente, il coltello piantato nel pane – che vediamo cadere non appena l'insensibile ma insostenibile peso dello sguardo si posa su di esso – simula e allegorizza, attraverso una catena arbitraria di figure indefettibilmente disidentificate da se stesse [8], simultaneamente ora la chiave, ora il telefono collocato fuori posto, ad indicare la presenza di un disordine segreto e flagrante che ha colpito gli ambienti in cui la vicenda transita ogni volta da capo, registrando la modificazione o la sostituzione di dettagli che, seppur non collimano mai tra di loro, giungono tuttavia a combaciare in un disegno congruente solo nel momento in cui li si legge secondo la deforme ricorsività endogena che scandisce il continuo ripresentarsi delle varie scene.
Frantumato e lineare, giratoire et virevoltant [9], caotico seppur seccamente geometrico, Meshes of the Afternoon è carico d'una concitazione intestina che lo fa girare a vuoto sul proprio perno mobile, finché tutti i simboli non sembrano essere tornati al loro punto di partenza. Ma se, come dicevamo poco più sopra, in questo film è esaurita ab ovo ogni idea di origine, in effetti sarebbe più corretto dire che tutta la pellicola si regge su una circolare pulsazione disseminativa, la quale con ordine ferreo mette a soqquadro radicalmente tutte le procedure di riorganizzazione narrativa proprio nel momento in cui essa si appella integralmente a queste al fine di portare a compimento la enunciazione dei fatti.
Un fotogramma del film
Praticando pertanto un sottile e deliberato impiego suicidario della vasta strumentazione tecnica messa a disposizione dal dispositivo cinematografico, Maya Deren probabilmente riesce a focalizzare ciò che ai primordi del cinema veniva definito lo specifico filmico, ovvero tutta quella serie di accorgimenti e soluzioni ritenute in grado di smarcare il film dalla posizione ancillare rispetto ad altre forme d'arte deputate alla narrazione, in primis il romanzo e la novella [10].
Azzerando la pregnanza del cosiddetto narratore in una specie di fantasma ubiquitario, che effonde il proprio sguardo in una vibratilità ottica degli spazi fisici [11], trasfigurati in ambienti mentali sottoposti alla pressione disgregante dell'inconscio, Maya Deren sviluppa un testo multiplo centrato però su se stesso attraverso una plastica forza associativa, la quale le permette di usare le immagini non come variabili limitate d'una materia d'imitazione, ma come corpi incandescenti nelle cui riprese variate osmosi ed antitesi stringono una complicità profonda ed inedita, che conducono alla déplétion dei significanti figurali [12], cioè ad un perpetuo svuotamento degli stessi, in modo tale che il film, proprio nel suo preciso farsi, disfa se stesso illustrando ciò che esso non riesce a definire e mostrando ciò che non riesce a rappresentare, tramutandosi così in un campo insaturabile di permanenze e permutazioni, nel cui furioso combinarsi noi stessi siamo catturati come nelle fragili maglie di un racconto il quale non può non terminare che all'altezza del proprio disperso inizio.


NOTE
 1. Integralmente visionabile presso https://www.youtube.com/watch?v=WY20hEUmdUA. Le musiche naturalmente non sono originali.
 2. Sul concetto di ressemblance cfr G. Didi-Huberman, Invention de l'hystèrie. Charcot et l'Iconographie photographique de la Salpêtrier, Macula, Paris, 1982, soprattutto pp. 126-166.
 3. M. Blanchot, L'amitié, Gallimard, Paris, 1982.
 4. J. Epstein, Écrits sur le cinéma, 1921-1953, Seghers, Paris, 1953.
 5. M. Blanchot, Lo spazio letterario, Einaudi, Torino, 1967. Interessante in tal senso l'introduzione di J. Pfeiffer.
 6. Sul concetto di massa-allucinogena cfr J. Lacan, Écrits, SEuil, Paris, 1966, soprattutti il saggio sulla toria del simbolo di Ernst Jones e R. Calasso, L'impuro folle, Adelphi, Milano, 1974.
 7. Cfr G. Deleuze, L'image-temps, ed de Minuit, Paris, 1985, il capitolo intitolato Cristaux de temps.
 8. Cfr J. Lacan, Op cit, in particolar modo il saggio sull'istanza della lettera nell'inconscio.
 9. C. Ollier, Souvenir-Écran, Gallimard, Paris, 1981, soprattutto i saggi dedicati ad Alain Resnais.
10. J. Ricardou, Le nouveau roman, Seuil , Paris, 1973, soprattutto pp. 113-127.
11. R. Bellour, Entre-images II, POL, Paris, 1999, il saggio dedicato a Blanchot.
12. R. Barthes, Oeuvres Complètes, Seuil, Paris, 2005, ilo saggio su Les trois sens