Un fotogramma del film |
Che cosa sia
di preciso Meshes of the Afternoon [1] probabilmente
non lo sapremo mai.
Non
basta infatti derubricarlo come un film sperimentale che indulge in
soluzioni prossime alla inafferrabile poetica surrealista e tantomeno
può risultare soddisfacente parlarne come di una pellicola
d'avanguardia il cui senso si riduce ad una ardita messa in opera di
tecniche registiche che trovano unicamente nella loro tautologica
esibizione qualche elemento di legittimazione. Ancora
oggi pertanto Meshes of the Afternoon
“visita” il nostro sguardo sfidando il nostro pensiero ad uno
sforzo di comprensione estenuante e felice.
Ciò
accade perché questo sorprendente cortometraggio del 1943 si
presenta innanzitutto come un teatro fluttuante e metamorfico, dove
scabre embolie di simboli si tramutano ora in matrici mutile di
emanazioni epifaniche private apparentemente d'ogni organicità e
struttura, ora in un accecato eccesso di reiterazioni che arrivano ad
estenuare le immagini stesse deputate a veicolare la dimensione
ricorsiva e asfittica del labilissimo plot, lasciandole così colare
a picco nel doppio fondo di una ressemblance [2] ostinatamente
ibridata con l'indefinita estinzione dell'oggetto, negato non solo
nel suo portato funzionale ma anche e soprattutto prosciugato d'ogni
vettorialità segnica.
Una
irradiazione dunque duplicemente debilitata nelle forme d'un crollo
concentrico infetta con insistenza ogni movimento ragionativo,
puntualmente convertito in scardinamenti percettivi i quali finiscono
con l'assieparsi in un vibratorio viluppo di visioni invadenti
l'obliqua interminabilità dell'occhio, tramutando quest'ultimo in un
avvolgente paesaggio ove l'invisibile sembra oscillare tra il
fisicamente sommerso e lo psichicamente rimosso, in una specie di
suolo liquido prossimo alla ebollizione sulla cui increspata
superficie sono proprio i riflessi a conservare la dura consistenza
degli oggetti [3].
È
grazie a questo serrato lavoro sul modo di far apparire le cose, come
fossero in preda ad una graduale scomparsa, che Maya Deren riesce a
far subentrare al semplice effetto di dissolvenza – se non di
dissoluzione materiale – il fitto splendore di una immagine
assoluta, sideralmente solitaria nella propria elusiva forza
d'affermazione, la quale infinita si cifra di spettralità tanto
slegate quanto ricorsive, così che il miraggio funziona allo stesso
tempo sia come allucinazione perentoria sia come ipotesi insidiosa
d'uno scenario di semantiche ormai dismesse o mai neppure intraviste,
esiliate senza resto tra la scomparsa e lo strappo praticato nel
reale, quasi ad ottenere una medusea saturazione dell'essere sorpreso
a trascolorare nel geometrico tracollo di sembianti ottenebrati dal
pallore dell'indistinto che lentamente annega tutto.
L'immagine
ora non è più il mansueto precipitato di una percezione, ma diviene
inconscio pulviscolo di incrinature sciamanti lungo il poroso verso
del pensiero. Maya
Deren, denunciando la sua vicinanza e i suoi debiti nei confronti di
Man Ray e Jean Epstein [4]– ma non è da escludere una marcata
influenza della scuola russa sulla sua formazione –, sa che lo
sguardo è una esplosione reticolare di flussi eccentrici, confluenze
e contrazioni che si incardinano in mobili quadri mentali, esposti
sempre ad una pulsazione filamentosa di segmenti incongrui, i quali
vanno a forgiare il discorso filmico includendo così tra le proprie
regole di costruzione tutti i destrutturati livelli di verbigerazione
visiva.
Il
cinema di Maya Deren si delinea quindi come una sorta di penetrazione
chirurgica nelle giacenze inquiete
dell'immaginario [5], il quale però
non è più sentito come una zona d'ombra da cui far emergere cumuli
di visioni, ma piuttosto esso viene ora avvertito quale sotterranea
corrente di energie tensive e verticali nel cui impetuoso
estrinsecarsi tutta una nuova versione del nostro aprirci al mondo è
sperimentata e messa in pratica. Ecco
allora che una rovente massa allucinogena [6] di sequenze si incurva
tutta verso dei centri di attrazione e raccordo vincolati l'uno
all'altro secondo una proliferante trama di relazioni strutturate per
interruzioni sovrapposte e incrociate, le quali, quasi sotto la
pressione di un inedito inconscio connettivo,
corrode la densa trasparenza dello sguardo aprendo in esso la lunga
crepa sul cui irregolare bordo cecità e visione si fanno
assurdamente sinonimi, diventano dati equipollenti, intercambiabili,
realizzando una sorta di fecondo spasmo, dove ad essere chiamata in
causa non è più la antica antinomia di apparenza e realtà ma
l'allineamento di oggetto-percezione-ricordo [7], così che l'elusivo
imporsi del primo nella sfaccettata prensione della seconda, la quale
trapassa, quasi in forza di una digestione mentale, nei meandri
infranti del terzo, non si dia più come un processo stabile e
spontaneo, ma sia costantemente cariato dall'interno da un capillare
frastagliarsi delle immagini che entrano di volta in volta in gioco
nei tre processi.
Fotogramma della sequenza del giglio |
Ciò
che sorprende in un film quale Meshes
of the Afternoon
è che in esso è abolita ogni nozione di origine pura all'interno
della composizione ad anello che chiude e al tempo stesso spalanca la
vicenda in una indefinita teoria di ritorni e sovrapposizioni resi
tanto più evidenti all'interno dei regimi narrativi adottati quanto
più evasivi rispetto ad ogni principio di concordanza piena tra le
varie riprese dei medesimi episodi.
Si
prenda ad esempio la deposizione del giglio all'inizio: questa non è
altro che una lucidissima ma imperscrutabile prefigurazione mortuaria
del corpo esanime della stessa Maya Deren che chiude il film; e
ugualmente, il coltello piantato nel pane – che vediamo cadere non
appena l'insensibile ma insostenibile peso dello sguardo si posa su
di esso – simula e allegorizza,
attraverso
una catena arbitraria di figure indefettibilmente disidentificate da
se stesse [8], simultaneamente ora la chiave, ora il telefono collocato
fuori posto, ad indicare la presenza di un disordine segreto e
flagrante che ha colpito gli ambienti in cui la vicenda transita ogni
volta da capo, registrando la modificazione o la sostituzione di
dettagli che, seppur non collimano mai tra di loro, giungono tuttavia
a combaciare in un disegno congruente solo nel momento in cui li si
legge secondo la deforme ricorsività endogena che scandisce il
continuo ripresentarsi delle varie scene.
Frantumato
e lineare, giratoire et virevoltant [9],
caotico seppur seccamente geometrico, Meshes
of the Afternoon
è carico d'una concitazione intestina che lo fa girare a vuoto sul
proprio perno mobile, finché tutti i simboli non sembrano essere
tornati al loro punto di partenza. Ma se, come dicevamo poco più
sopra, in questo film è esaurita ab ovo ogni idea di origine, in
effetti sarebbe più corretto dire che tutta la pellicola si regge su
una circolare pulsazione disseminativa, la quale con ordine ferreo
mette a soqquadro radicalmente tutte le procedure di riorganizzazione
narrativa proprio nel momento in cui essa si appella integralmente a
queste al fine di portare a compimento la enunciazione dei fatti.
Un fotogramma del film |
Praticando
pertanto un sottile e deliberato impiego suicidario della vasta
strumentazione tecnica messa a disposizione dal dispositivo
cinematografico, Maya Deren probabilmente riesce a focalizzare ciò
che ai primordi del cinema veniva definito lo specifico
filmico,
ovvero tutta quella serie di accorgimenti e soluzioni ritenute in
grado di smarcare il film dalla posizione ancillare rispetto ad altre
forme d'arte deputate alla narrazione, in primis il romanzo e la
novella [10].
Azzerando
la pregnanza del cosiddetto narratore in una specie di fantasma
ubiquitario, che effonde il proprio sguardo in una vibratilità
ottica degli spazi fisici [11], trasfigurati in ambienti mentali
sottoposti alla pressione disgregante dell'inconscio, Maya Deren
sviluppa un testo multiplo centrato però su se stesso attraverso una
plastica forza associativa, la quale le permette di usare le immagini
non come variabili limitate d'una materia d'imitazione, ma come corpi
incandescenti nelle cui riprese variate osmosi ed antitesi stringono
una complicità profonda ed inedita, che conducono alla déplétion
dei significanti figurali [12], cioè ad un perpetuo svuotamento degli
stessi, in modo tale che il film, proprio nel suo preciso farsi,
disfa se stesso illustrando ciò che esso non riesce a definire e
mostrando ciò che non riesce a rappresentare, tramutandosi così in
un campo insaturabile di permanenze e permutazioni, nel cui furioso
combinarsi noi stessi siamo catturati come nelle fragili maglie di un
racconto il quale non può non terminare che all'altezza del proprio
disperso inizio.
NOTE
1. Integralmente visionabile presso https://www.youtube.com/watch?v=WY20hEUmdUA. Le musiche naturalmente non sono originali.
2. Sul concetto di ressemblance cfr G. Didi-Huberman, Invention de l'hystèrie. Charcot et l'Iconographie photographique de la Salpêtrier, Macula, Paris, 1982, soprattutto pp. 126-166.
3. M. Blanchot, L'amitié, Gallimard, Paris, 1982.
4. J. Epstein, Écrits sur le cinéma, 1921-1953, Seghers, Paris, 1953.
5. M. Blanchot, Lo spazio letterario, Einaudi, Torino, 1967. Interessante in tal senso l'introduzione di J. Pfeiffer.
6. Sul concetto di massa-allucinogena cfr J. Lacan, Écrits, SEuil, Paris, 1966, soprattutti il saggio sulla toria del simbolo di Ernst Jones e R. Calasso, L'impuro folle, Adelphi, Milano, 1974.
7. Cfr G. Deleuze, L'image-temps, ed de Minuit, Paris, 1985, il capitolo intitolato Cristaux de temps.
8. Cfr J. Lacan, Op cit, in particolar modo il saggio sull'istanza della lettera nell'inconscio.
9. C. Ollier, Souvenir-Écran, Gallimard, Paris, 1981, soprattutto i saggi dedicati ad Alain Resnais.
10. J. Ricardou, Le nouveau roman, Seuil , Paris, 1973, soprattutto pp. 113-127.
11. R. Bellour, Entre-images II, POL, Paris, 1999, il saggio dedicato a Blanchot.
12. R. Barthes, Oeuvres Complètes, Seuil, Paris, 2005, ilo saggio su Les trois sens