Ritratto di J. Derrida |
Il
ruvido splendore che fende ogni pagina dei suoi romanzi urta e
ferisce lo strano spaziarsi di figure attratte senza respiro nella
cerea trascorrenza di dialoghi maturati (e insieme murati) nelle
fredde screpolature di voci divenute taciti centri di una breve
immensità, che s'aggira intorno alla brillante fissità del Neutro.
Ma che cos'è qui il Neutro? Un intervallo, potremmo dire, che
distanzia e coniuga in un solo gesto l'eco atroce dell'indicibile –
accaduto esattamente là dove ogni ritorno si fa interruzione –,
che ci si para di fronte come una statua d'acqua, la quale non smette
di oscillare tra la tersa durezza del cristallo e il desolato nitore
della folgore.
Ma
il Neutro per Blanchot prese forma anche in ciò che oggi potremmo
definire la parola ininterrotta, frastagliata e furiosa secondo la
segreta schiagrafia di una scrittura pura ed immane, nel cui
smisurato volume le discontinuità di un mondo in frantumi si
traducono nel sonnambolico travaglio di un Assoluto privo di
contenuto, una potenza solitaria, aberrante, negativa, forse deforme
– o informe – nei confronti della quale non è ammesso contatto o
comunicazione, se non per concentrica abolizione di senso, metafisica
consumazione della realtà, raggelata pensée
du dehors [4],
tutti rovinanti nel bruciante ascesso di un immaginario
infaticabilmente solcato da identità erranti.
Il
Neutro allora è l'Essere stesso, percorso come da un margine
disorientato verso l'eccesso livido di una pienezza anodina,
penetrato dalle infiorescenze di un miraggio perfetto incassato
nell'origine di ogni opera, il cui linguaggio sia al tempo stesso
dissipazione di un'interrogazione inappellabile, raggrumato spazio
ospitante parole spettralmente profondate in un vuoto diventato
pietrificato crollo, ossessionata molteplicità di silenzi sorti da
uno sguardo immobile su quell'ineffabile punto cieco che ha
l'astratto nome di morte. E per decenni prima di morire Blanchot ha
lavorato (al)la propria scomparsa, per renderla il più possibile
inudibile e felpata, inassegnabile nel tempo e nello spazio, avvenuta
da sempre e costretta pertanto a non prodursi mai del tutto, exitus
lieve e vorace, inavvertito come lo scivolare lento di un'ombra sulle
pareti spoglie di un museo vuoto e abbandonato, come il sorriso vacuo
di una maschera dismessa. Ma per fare ciò Blanchot aveva dovuto
innanzitutto allestire la sua stessa esistenza ad anticamera della
morte, ove attenderla per assentarvisi quando essa fosse giunta,
operando egli stesso su di sé ciò che la morte avrebbe comportato
nel sordo frangente del suo irrevocabile arrivo. Blanchot scelse di
abitare prematuramente questa quinta astratta, costruendo in essa la
propria presenza attraverso la vasta invisibilità filtrata da una
scrittura scagliata nel buio per sagomarsi silente e frastornata su
une voix venue d'ailleurs
– su una voce venuta d'altrove, come recita il titolo di una delle
sue ultime raccolte di saggi – nell'auspicio forse di divenire egli
stesso quell'altrove, vergine e violato, sul cui delicato sottrarsi
ad ogni pronunciabilità trascrivere i segni di un naufragio,
leggibile tuttavia a contrario
come il più felice degli approdi, vissuto in prima persona ma
narrato alla terza.
Proprio
nell'opera appena citata – Une voix
venue d'ailleurs [5],
miscellanea piuttosto eterogenea, i cui saggi principali sono
dedicati a Foucault, Celan e Louis-René
des Forêts – l'autore
s'interroga giusto in apertura su uno dei nodi gordiani di tutta la
filosofia: «où
est le commencement, […] est-ce quelqu'un ou quelque chose qui
commence?»
[6]. Questione sorprendente e
inquietante, se si pensa che a porla in limine mortis
– la raccolta fu pubblicata l'anno prima della morte di Blanchot –
sia stato uno dei pensatori che con maggior ostinazione ha dedicato
buona parte della sua riflessione a perlustrare il momento della
dipartita, a interrogare il trasparente enigma della morte, quel
mistero che proprio in forza della sua traslucida purezza non si
lascia mai scorgere da vicino, fugge allo sguardo, diventa opaco per
eccesso di invisibilità. Ma forse ciò che sorprende e inquieta di
più è la sorda ma lucida sospensione che Blanchot lascia tra il
qualcosa e il qualcuno, l'interdetta postulazione di un quid
non identificabile, il quale viene alla luce attraverso l'oscurità
dell'immagine che lo trattiene.
J-L Nancy |
Per
Blanchot tuttavia l'anacrusi diventa uno spazio alogico, dove il
pensiero dimora in esilio necessario e forse volontario, da cui
osservare ciò che si fa mondo prima però che questo avvenga, come
la battuta muta e fuori tempo – prima del tempo, a segnarne
l'incipit – da cui principia la possibilità stessa di pensare e di
pensare l'origine con la totale trasparenza di ciò che non ha fine.
L'anacrusi è dunque un tempo anteriore ma non originario, il
perfetto frantume di un momento assolto da ogni divenire, sottratto
alla catena delle successioni che da esso si dipanerà; essa è così
l'istante completamente risolto nel proprio prodursi in una scansione
senza seguito, conclusa e riassorbita nella precaria imminenza di
un'eco che precede la vibrazione da cui prenderà corpo. Quasi
sessant'anni fa Blanchot per la prima volta aveva sentito il bisogno
di affrontare l'anacrusi, in uno dei suoi romanzi più enigmatici e
controversi dal titolo sibillino Celui qui ne
m'accompagnait pas [7]. In
questo testo del 1953 l'autore arrivava a parlare dell'anacrusi in
questi termini:
[essa]
è una parola? eppure non una parola, appena un mormorio, appena un
brivido, meno del silenzio, meno dell'abisso del vuoto: la pienezza
del vuoto, qualcosa che non si può far tacere, che occupa tutto lo
spazio, l'ininterrotto e l'incessante, un brivido e già un mormorio,
non un mormorio, ma una parola, e non una parola qualsiasi, ma
distinta, esatta, a mia portata [8].
Blanchot
apre con una domanda che non può che tornare senza resto su se
stessa, chiudendosi silenziosamente con le movenze tenui ma incisive
di una latenza intrattabile. Incessante e inaccessibile, la sua
imminente cancellazione totale insiste, persiste, resiste – ma non
esiste – come l'unico stigma in seno ad una abolizione da cui
l'Essere è espulso attraverso le disseminate fissurazioni di una
indissolubile polisemia dello svanire.
Possiamo
ora indicare i due vertici mobili a partire dai quali il campo di
gravitazione della scrittura blanchotiana prende forma: da una parte
l'auscultazione di una parola sepolta nell'apnea semantica di ciò
che anticipa ogni origine, ovvero l'anacrusi; dall'altra il bianco
obliterarsi di ogni sembianza nel barbaglio ibrido di immagini che
appaiono lungo lo scucirsi della luce, nel tremito vasto e perpetuo
dell'Elemento, nell'inesorabile crepuscolo di un'identità che elegge
a proprio centro il lontano:
io
dovevo rimanere là, tenermici, era quello il mio compito, l'inizio
di una decisione che dovevo sostenere […] tradendola il meno
possibile, senza mai essere privato di me stesso, ma sempre di fronte
all'esigenza che mi dava il sentimento d'essere io stesso scomparso,
e, lontano dal credermene libero, d'essere legato a questa scomparsa,
legato sempre più intimamente ad essa, d'essere chiamato, votato a
sostenerla, a renderla più reale, più vera, e, nello stesso tempo,
a spingerla lontano, sempre più lontano, là dove la verità non
arriva, dove la possibilità cessa [9].
La copertina dell'ultima edizione |
Celui
qui ne m'accompagnait pas appare
ancora oggi come un rebus senza soluzione: esso è una sorta di
dialogo per voce sola, un dialogo da cui la figura dell'interlocutore
è sempre espunta – le sue repliche sono solo sospettate, intuite,
suggerite a noi dal narratore –, sostituita da una diffusa lacuna.
Si prendano per un attimo le battute finali del romanzo: tutti gli
sparuti eventi evocati fino ad allora di dispongono secondo una
direzione silenziosa di astensione ed usura; l'incipit, ugualmente, è
un'affermazione senza referente: aborder
[10]...chi? che cosa? quando? perché? dove? Siamo già al centro di
quel percorso
aggirante
[11] con cui Blanchot indicherà nel '69 l'essenza della sua
scrittura, di una scrittura che non riflette per frantumi di tenebra
l'esangue elidersi delle cose nella parola, ma piuttosto esprime
l'identificazione estenuante con un détour
in
cui si fa palese il disordinato appello a uno spasimo di chiarità
affiorante sull'eroso orizzonte lungo il quale ogni evidenza è
l'estremo simulacro d'una contorta presenza trasfigurata in immagini
urlanti. Ecco cosa scriveva Blanchot a questo proposito già nel
1955:
l'immagine
di un oggetto non soltanto non è il senso
di questo oggetto e non aiuta alla sua comprensione, ma tende a
sottrarvelo mantenendolo nella immobilità di una somiglianza che non
ha niente a cui somigliare. […] L'immagine domanda la cancellazione
del mondo. Presente dietro ogni cosa come la dissoluzione di questa
stessa cosa e il suo sussistere nella dissoluzione, essa ci
rappresenta l'oggetto in una luminosa aureola formale,
ma è con il fondo che essa si lega, con la materialità elementare,
con l'assenza ancora indeterminata di forma, […] trasparenza fugace
[sorta] dall'oscurità del destino resa alla sua essenza che è di
essere un'ombra [12].
La
scrittura è stata per Blanchot il modo elettivo con cui sorprendere
senza adulterare questa somiglianza che non ha niente a cui
somigliare, simile pertanto a una lievissima increspatura lasciata
sul reale dal risolversi delle cose in una rifrazione circolare che
puntualmente torna a comporsi nel loro stesso avvolgersi, là dove
prima v'era ciò che le segnalava come tali, disegnando così sul
flebile arabesco del loro spegnersi forse la più alta attestazione
di presenza, quella di colui che tace in ascolto del fitto brusio del
mondo, in attesa di districarne gli estremi balbettii di verità...
Note
1.
J. Derrida, Parages,
Galilée, Paris, 1986.
2.
Ivi,
p. 177 e seguenti, p. 238 e seguenti, 267 e seguenti.
3.
J-L Nancy, La
mort de Maurice Blanchot,
in Libération,
5 marzo 2003. L'articolo è interamente leggibile presso il sito
http://www.liberation.fr/tribune/2003/03/05/hommage-a-l-homme-blanchot_457682
4.
Naturalmente qui è esplicito il riferimento a Michel Foucault,
Scritti
letterari,
a cura di C. Milanese, Feltrinelli, Milano, 1996, p. 111-134.
5.
M. Blanchot, Une
voix venue d'ailleurs,
Gallimard, Paris, 2002.
6.
Ivi,
p. 29. Il saggio s'intitola Anacrouse.
7.
M. Blanchot, Celui
qui ne m'accompagnait pas,
Gallimard, Paris, 1987.
8.
Ivi,
p. 125. Traduzione nostra.
9.
Ivi,
p. 67. Traduzione nostra.
10.
Ivi,
p. 7. Per tutto il testo ritorna inoltre il problema del
commencement:
cfr. soprattutto p. 91 e seguenti, ma anche p. 118 e p. 156 e
seguenti.
11.
M. Blanchot, L'entretien
infini,
Gallimard, Paris, 1969, p. 442.
12.
M. Blanchot, Lo
spazio letterario,
a cura di J. Pfeiffer e G. Neri, Einaudi, Torino, 1967, p. 223.
Già pubblicato su http://www.kasparhauser.net/ethica/crivella-blanchot.html