mercoledì 18 giugno 2014

Quel che resta del mito. Alcune osservazioni su Restless di Gus Van Sant

Crivella Giuseppe

Enoc e Annabel
 Quando nel 2011 arrivò nelle sale cinematografiche Restless molti critici cinematografici restarono decisamente perplessi, poiché in effetti nulla lasciava presagire che nelle intenzioni di Gus Van Sant vi fosse l'idea di aggiungere un ulteriore tassello a quel trittico sulla morte che il regista statunitense sembrava aver portato a termine nel 2005 con Last Days, il quale si era venuto ad affiancare a due precedenti pellicole – Gerry (2002) ed Elephant (2003) – aventi tutte come nodo tematico appunto la morte colta da prospettive inusuali e destabilizzanti. Restless infatti, seppur ereditava ad un primo sguardo alcuni aspetti dei films precedenti, ad un esame più preciso si smarcava da questi imponendosi già dalle prime sequenze quale schietto e calibrato capolavoro di cinematografia assorta in una vibrante e vivace tenuità d'aspetti coordinati secondo le flessibili leggi di un asciutto realismo magico, che ha la forza di ammantare di bianco la morte, frustrandone in tal modo da subito le logore iconografie reçues e disinnescandone puntualmente la gravità lacrimosa, grazie alle inaspettate soluzioni di un grottesco timido e decantato, sincero e rarefatto, brioso e impalpabile, capace di rendere straordinariamente umani e concreti i personaggi, credibili e veritieri i sentimenti.
 A distanza di tre anni, Restless rimane senza dubbio un punto di svolta all'interno della produzione di Gus Van Sant, in quanto esso viene a porsi non solo come uno dei suoi films più riusciti, ma anche come una delle pellicole che in modo più penetrante si confrontano col tema della morte inquadrandolo all'interno di un più vasto processo di riattivazione di determinati codici culturali che la tradizione schiettamente post-moderna – soprattutto nelle sue forme più logore ed epigonali - sembrava aver definitivamente archiviato, se non addirittura svuotato di senso. E così, in questo quarto tassello [1], proponendosi di affrontare de visu la morte, il regista la prende e la sorprende alle spalle, arrivando quasi ad accarezzarne e sfiorarne il freddo e notturno corpo d'abbandono e di oblio attraverso il variopinto e fragilissimo velo di un amore spontaneo e purissimo, intriso di una ingenuità trasognata e pertanto morbidamente inconsapevole, che coinvolge indistintamente e confonde l'affetto e il dolore, la felicità e il pianto in una movimentata fantasmagoria di attenzioni, sguardi, silenzi, sempre sospesi tra un lugubre paradossale e sornione e un gustosissimo cinismo, entrambi incaricati di mantenere la pellicola equidistante da ogni dolciastro cedimento struggente, così come dalle più insidiose accensioni patetiche.
 In tal senso Restless risulta strutturalmente impeccabile poiché congegnato in modo da disturbare e disordinare continuamente le aspettative del pubblico, non tanto infrangendo gli schemi di genere, ma piuttosto mischiandone le carte, sovrapponendo cioè i clichés della storia d'amore ai poncifs della vicenda luttuosa, mettendoli in rotazione gli uni sugli altri così da ottenere ogni volta soprendenti e stranianti sfocature e sfasature di situazione ad elevatissimo tasso di chiaroscurale comicità pensosa.
 In seno a siffatto impianto narrativo - reso particolarmente solido dalla ricca mobilità interna dei vari elementi compositivi - Gus Van Sant fa muovere le figure portanti, Enoch e Annabel, lungo le traiettorie di due prospettive incrociate e speculari: da una parte vi è Enoch il quale, sopravvissuto ad un incidente d'auto in cui ha perso i genitori e ha rischiato di morire, si sente condannato a vivere (e a sopravviversi) in una esistenza sulla quale non cessa di portare uno sguardo acutamente disilluso, affilato e straniante perché maliziosamente attratto dalla morte; dall'altra parte troviamo invece Annabel, fanciulla piena di vita appassionata di scienze naturali (ammira infinitamente di Darwin il quale, nell'economia del film, rappresenta colui che ha studiato la vita in tutte le forme e in tutte le molteplici variazioni a cui essa ricorre per resistere e opporsi all'estinzione) la quale, pur sapendo di essere affetta da un male che le lascia solo tre mesi di vita, non cessa di osservare la morte da un'angolatura obliqua, fortemente ironica, proficuamente
hors de propos
 In tal modo Enoch e Annabel non smettono di rincorrersi e respingersi, attrarsi e riflettersi reciprocamente tessendo la trama di una storia che evoca vicende dal respiro così antico da lambire addirittura le umbratili e ormai semidesolate regioni del mito.
 Gus Van Sant sembra infatti attuare un recupero sottilmente parodistico dell'episodio di Orfeo e Euridice [2], rovesciandone però e sdoppiandone al tempo stesso l'articolazione interna: se nella versione antica era Orfeo a dover ricondurre Euridice alla luce del sole, ora è Annabel che sembra piuttosto avere il compito di "riabilitare" Enoch alla vita; e ancora, se nella versione arcaica la vicenda si consumava unicamente in un tentativo di risalita all'esistenza, nella rilettura di Gus Van Sant è necessario registrare la presenza deformante di una riuscitissima "iniziazione alla morte" da parte di Enoch nei confronti di Annabel. Un invisibile gioco di specchi sembra allora sottendere tutto il film che viene a poco a poco ad incardinarsi su di un inavvertito punto di tracollo delle due esperienze, il quale coincide esattamente con il frangente di brillante oscurità in cui Annabel varca la soglia della morte e Enoch sfonda la parete della vita, grazie ad una disorientante ma lucidissima intersezione di piani convergenti fino a formare il fugace ma infinito spazio di scambio e contatto tra Enoch e Annabel, dal cui lieve sfiorarsi i rispettivi vissuti usciranno col segno mutato, come in seguito ad una sotterranea trasfigurazione tutta terrena di gesti e ricordi, oggetti e momenti, parole e paesaggi, venuti a raccogliersi - forse per sempre, forse per l'ultima volta - nelle remote prossimità di un amore da intendersi ancora una volta, con Lacan, quale
«incontro di due tracce d'esilio» [3].

NOTE

1. In effetti Van Sant non ha mai ammessso di aver apposto un quatro tassello alla sua trilogia, ma è difficile non leggere Restless come un ulteriore momento di quella sua particolarissima riflessione che intreccia in un serto instricabile adolescenza e morte.
2. Naturalmente qui il mito viene ridotto ad un gruppo di mitemi piuttosto essenziali: in particolare i nuclei che rimangono intatti sono quelli della transizione vita/morte sovrapposti alla coppia uomo/donna e soprattutto l'inavvertibilità del momento del trapasso, qui felpata attraverso la presenza mediatrice dell'aviatore nipponico. Medesima operazione di "insonorizzazione" della morte - seppur con accenti e scopi molto diversi - si trova sia in una lirica di Rilke che in Pavese.
3. J. Lacan, Seminaire, Livre 20. Encore 1972-1973, Seuil, Paris, 1975.