mercoledì 8 ottobre 2014

Perché amo la Francia...

di Emil Cioran


Un ritratto di Cioran
Francia, 1941: l'apolide metafisico scrive alla e della sua patria, parlandone con accenti affini a quelli con cui il mistico parla del suo ineffabile Dio e il folle della sua smarrita - o forse fatalmente e definitivamente conquistata - ragione. 
Cioran e la Francia: la più bella lettera d'amore che il desiderio - e lo spettro - di una dimora permanente dettò a colui che fece del proprio sradicamento la forma elettiva di ogni risiedere...

«Cosa ha amato, la Francia? Gli stili, i piaceri dell'intelligenza, i salotti, la ragione, le piccole perfezioni. L'espressione precede la Natura. Siamo di fronte a una cultura della forma che ricopre le forze elementari e che, sopra ogni impulso passionale , stende la vernice elaborata della raffinatezza. La vita – quando non è sofferenza – è gioco. Dobbiamo essere riconoscenti alla Francia per averlo coltivato con maestria e ispirazione. Da lei ho appreso a non prendermi sul serio se non al buio e, in pubblico, a prendermi gioco di tutto. La sua scuola è quella di una noncuranza saltellante e profumata. La stupidità vede ovunque obiettivi; l'intelligenza, pretesti.
La sua grande arte è la distinzione e la grazia della superficialità.
Mettere talento nelle cose da niente – cioè nell'esistenza e negli insegnamenti del mondo – è un'iniziazione ai dubbi francesi. La conclusione del XVIII secolo, non ancora contaminata dall'idea del progresso: l'universo è una farsa dello spirito. Il peccato e il merito della Francia consistono nella sua socievolezza. Le persone sembrano fatte solo per incontrarsi e scambiarsi parole. Il bisogno di conversazione proviene essenzialmente dal carattere acosmico di questa cultura. Né il monologo né la meditazione la definiscono. I francesi sono nati per parlare e si sono formati per discutere. Lasciati da soli, sbadigliano [...].
L'uomo medio è più realizzato in Francia che ovunque altrove. Il suo livello supera quello dell'inglese, del tedesco o dell'italiano. La mediocrità ha raggiunto un tale stile che è difficile trovare nell'individuo comune, nell'uomo della strada, esempi di stupidità caratterizzata. Chiunque sa presentarsi bene, chiunque sa qualcosa. Per questo la Francia è grande per dei nonnulla. Può darsi che, alla fine, la civiltà non sia altro che la raffinatezza del banale , la cesellatura delle cose minute e la cura nel conservare un briciolo di intelligenza nell'accidentale quotidiano. Vale a dire: rendere l'idiozia naturale, possibile da sopportare, avvolgendola nella grazia e conferendole il lustro della finezza. Non c'è dubbio che tra i francesi si trova il minor numero di duri, irrimediabili, eterni imbecilli. Persino la lingua sembra opporsi. Nei bistrot, si lanciano repliche da salotto. La nazione non consente né la profondità né l'idiozia che altrove mostrano milioni di persone qualunque e alcuni geni incommensurabili. La Francia perde il proprio equilibrio se esce dalla mediocrità.
Emil Cioran e Ernst Jünger
Bisogna esserle riconoscenti di aver coltivato fino al vizio l'orrore della banalità. [...] Se i tedeschi non hanno il romanzo, se la loro prosa è illeggibile, non è solo perché la musica e la metafisica sono per loro degli adeguati mezzi di espressione, ma perché non sono capaci di parlare, di sostenere le variazioni a livello della discussione. Il romanzo è una creazione dei francesi e dei russi: due popoli che parlano e sanno parlare. I dialoghi soporiferi del romanzo tedesco, l'incapacità nazionale di andare oltre i monologhi, spiegano l'inevitabile carenza della prosa. Per chi ama l'aroma della parola immediata, la Germania provoca un infinito sbadiglio. La poesia, la musica e la filosofia sono atti dell'individuo solitario. I tedeschi stanno o da soli o tutti insieme. Mai in dialogo – mentre la Francia è il paese del dialogo e rifiuta le ispirazioni scialbe o sublimi dei suoi vicini insulari o d'oltre-Reno. [...] Il francese ha dimenticato l'idea del peccato: è la grande scusa del secolo. Così, il suo libertinaggio non può essere condannato: nessun piacere deve essere guastato dal senso di colpa – prodotto da un panico plebeo o da un vizio solitario, poco apprezzati in un mondo infinitamente socievole. [...] Essere superficiali con stile è più difficile che essere profondi. Nel primo caso, occorre molta cultura; nel secondo, un semplice squilibrio delle facoltà. La cultura è sfumatura; la profondità, intensità. Senza una dose d'artificio, lo spirito umano si spezza sotto il peso della sincerità, questa forma di barbarie.
 Lo sradicamento dai valori e il nichilismo istintivo costringono l'individuo al culto della sensazione. Quando non si crede più a niente, i sensi diventano religione. E lo stomaco finalità. Il fenomeno della decadenza è inseparabile dalla gastronomia. Un romano, un certo Gavio Apicio, che percorreva le coste dell'Africa alla ricerca delle più belle aragoste e che, non trovandole di suo gusto in alcun luogo, non riusciva a stabilirsi da nessuna parte, è il simbolo dei deliri culinari che si instaurano in mancanza di fedi. Da quando la Francia ha rinnegato la sua vocazione, l'atto del mangiare si è elevato al rango di rito. Ciò che è rivelatore, non è il fatto di mangiare, ma di meditare, di speculare, di intrattenersi per ore e ore su questo argomento. La coscienza di questa necessità, la sostituzione del bisogno con la cultura – come nell'amore – è il segno dell'affievolirsi dell'istinto e dell'attaccamento ai valori. Ognuno di noi ha potuto fare quest'esperienza: quando nella vita si attraversa una crisi scatenata dal dubbio, quando tutto ci disgusta, il pranzo diventa una festa. Gli alimenti sostituiscono le idee. I francesi sanno di mangiare da più di un secolo. Dall'ultimo contadino all'intellettuale più raffinato, l'ora del pasto è la liturgia quotidiana del vuoto spirituale. La trasformazione di un bisogno immediato in fenomeno di civiltà è un avanzamento pericoloso e un grave sintomo. La pancia è stata la tomba dell'Impero romano, ineluttabilmente lo sarà anche per l'Intelligenza francese [...].
La Francia può ancora fare una rivoluzione.

Un paese è grande non tanto per l'innalzamento del livello d'orgoglio dei propri cittadini, ma per l'entusiasmo
che ispira agli stranieri, per la febbre che trasforma in satelliti dinamici coloro che sono nati sotto altri cieli. C'è mai stato forse un paese al mondo che abbia avuto così tanti patrioti provenienti da un altro sangue e da altre tradizioni? Non siamo stati noi tutti, nelle crisi, negli accessi o nei respiri di lunga durata, dei patrioti francesi? Non abbiamo forse amato la Francia con più ardore dei suoi figli? Non ci siamo innalzati e umiliati con una passione facilmente comprensibile e tuttavia inspiegabile? Venuti in così tanti da altri luoghi, non l'abbiamo forse abbracciata come l'unico sogno terreno del nostro desiderio nostalgico? Per noi che arriviamo da ogni sorta di paese, da paesi sfortunati, l'incontro con un'umanità realizzata ci conquistava offrendoci l'immagine di una dimora ideale. [...] Ci accontenteremo di altri spazi, ma senza slanci né inchini. Qualcosa della Francia è passata in noi, qualcosa che ha ucciso in noi l'innocenza dell'anima...»

(Tratto da Sulla Francia, ed. Voland 2014. Traduzione di Giovanni Rotiroti)