sabato 15 novembre 2014

Grazie (rendiamo) a Jacques Derrida

di Maurice Blanchot [*]

E. Lévinas
Dopo un lungo silenzio (di secoli e secoli, forse) riprenderò a scrivere, non su Derrida (che pretesa!), ma con il suo aiuto, persuaso che lo tradirò subito. Ecco una questione: c'è una o ci sono due Torah? Risposta: ci sono due Torah, perché necessariamente non ce n'è che una. Questa. Unica e tuttavia doppia (ci sono due tavole che si fronteggiano) è scritta ed è scritta dal dito di «Dio» (lo chiamiamo così per impotenza a denominarlo). Mosè avrebbe potuto redigere come uno scriba fedele, sotto dettatura, trascrivendo la Voce. La Voce, certo, egli l'ascolta sempre: ha il «diritto» di ascoltare, ma non di vedere (tranne una volta da dietro, vedendo una non-presenza, per lo più dissimulata [1]).
Ma è diverso. La Torah è scritta non soltanto per essere conservata (custodita in memoria), ma perché «Dio» privilegia forse la scrittura, rivelandosi come il primo e l'ultimo scrittore. (Nessun altro oltre lui ha potere di scrivere). «E per quale diritto ora tu scrivi?» – «Ma io non scrivo». Ciò che accade in seguito è tutto noto pur restando sconosciuto (conosciuto sotto la forma di una storia). Dal momento che Mosè non faceva ritorno [2] (quaranta giorni quaranta notti d'assenza – il tempo in anni della traversata del deserto), il popolo dubitò e reclamò altri Signori o una guida diversa. Qui introduco senza dubbio una interpretazione scorretta. Aaronne, fratello di Mosè, Aaronne che aveva il dono della parola che mancava a suo fratello [3], (ritorneremo su questo punto) fece ricorso a un'astuzia (l'astuzia gioca un gran ruolo nella storia ebraica, così come nella storia greca: le vie non sono diritte – è un danno, un danno che ci costringe a cercare liberamente la rettitudine). Aaronne domanda a tutti e a tutte di rinunciare ai propri ornamenti preziosi: orecchini, collane, anelli ecc – in una parola egli li spoglia e con ciò che apparteneva loro confeziona qualcosa, un oggetto, una figura che non gli apparteneva. Quale fu l'errore di Aaronne in questa abile astuzia in cui egli finì col perdersi? Divenne artista, s'arrogò il potere creatore, sebbene l'immagine che forgiò fosse tale da dover risvegliare la diffidenza dei suoi ammiratori (un vitello e un vitello d'oro) [4]. Altrimenti detto, gli ebrei ritornavano agli dei dell'Egitto in cui essi erano stati schiavi (il vitello evoca forse Anubi, testa di sciacallo, o il toro Api). Infelici laggiù, supremamente infelici, essi ne avevano serbato nostalgia. Liberi ora, ma non sentendosi capaci di sopportare il peso della libertà, il suo carico, il suo peso.
Mi sembra che Mosè perduto fra le altezze, con le sue Tavole in cui egli aveva la sovrana e primissima scrittura, non presentisse niente. Fu necessario che «Dio» lo avvertisse. Torna giù, torna giù, lì è la catastrofe. Mosè ridiscende con le Tavole e vede il disastro [5]. Furore di distruzione, pertanto: il vitello egiziano è ridotto in polvere, l'immagine scompare, e la materia preziosa (l'oro) respinta, annientata. Ma la distruzione va oltre: poiché Mosè distrugge, infrange le Tavole [6]. Noi ci domandiamo: come può essere possibile? Come Mosè può distruggere l'indistruttibile? La scrittura scritta non da lui, ma dall'Altissimo? Ciò vuol dire: tutto si cancella, tutto deve cancellarsi? Non sembra che «Dio» veda con rigore questo atto che può qualificarsi a torto come di iconoclasta. Al contrario, il furore oltrepassa ogni misura. Il popolo, così spesso salvato, è minacciato, minacciato d'essere annientato. Non c'è niente da fare con questo popolo, già celebre (e celebrato) per la sua dura cervix (una cervice che il lavoro di schiavitù ha indurito) [7]. «Dio» ha una o due volte (forse di più) questa tentazione – tentazione che è destinata a mettere alla prova Mosè: abolire tutto il passato e ricominciare con il solo Mosè che perpetuerà la Legge e genererà un nuovo popolo (ciò non vuol dire certo che esso avrà un'altra origine – egiziana per esempio – ma altra tuttavia perché si sa responsabile di tutte le altre – ah, pesante fardello).
Ma Mosè, quest'uomo strano e reso straniero dal compito e dalla scelta che lo ha colpito per portarlo a termine (perché ha preso moglie lontano, in una famiglia non ebrea, originaria del Kouch, etiope probabilmente e nera, mal accolta per questo da Aaronne, già un po' razzista, Miriam, «donna che, è vero, più tardi si convertirà (ed anche il padre)». Così noi apprendiamo che la conversione, secondo alcuni riti, è giusta, anche se essa non è raccomandabile. Sì, Mosè è essenzialmente umile (è la sua kenosi), non vuole fare da capostipite al di sopra di questo popolo infelice e tanto più infelice quanto più esso è sprovveduto, colpevole d'essere impaziente, e questa impazienza, virtù e pecca di coloro che non sanno attendere, per chi la salvezza (il Messia) deve venire immediatamente, condurrà a un castigo, ma non all'annientamento. Dopo di ciò, tutto ricomincia: la risalita di Mosè, l'assenza, la frustrazione e l'espiazione dei quaranta giorni e delle quaranta notti, l'obbedienza al compito di cercare e di scolpire (non è un'arte rozza?) le due tavole simmetriche di pietra, sulle quali il dito di «Dio» scrive di nuovo, una seconda volta, la Legge, (ciò che la lingua greca denominerà il Decalogo) [8]. Qui è anche l'umiltà di Dio, nonché il mistero della scrittura. Se l'umiltà di Dio accorda il ricominciamento, resta che, per colpa dell'uomo, è come se non vi fosse una prima scrittura: ogni prima scrittura è già seconda, è la propria secondarietà. Da qui il dibattito infinito sulle due Torah (non la Torah infranta e la Torah intatta – questa ricerca sarà la tentazione, il pericolo mistico), ma la Torah scritta e la Torah orale: una superiore all'altra, la prima bianca, la seconda nera – bianca, cioè vergine (la pagina bianca) e come scritta o piuttosto non sottoposta alla lettura, sfuggente ad essa, costituita da una traccia intemporale, senza età, un segno anteriore ad ogni tempo, anteriore alla creazione stessa? Ma tale segno, questa traccia e questi bianchi non sono criptici, difficili o impossibili da decifrare che per i non-studenti, l'allievo senza maestro, il conoscitore temerario (ciò che io sono qui). La Torah orale è allora superiore, nella misura in cui essa rende leggibile l'illeggibile, scopre il nascosto, risponde al suo nome che è insegnamento, lettura infinita che non può essere condotta da soli, ma sotto la direzione di un Maestro, di tutta una linea di Maestri, impegnati a «strappare» sempre dei nuovi sensi, senza dimenticare tuttavia la prima regola: tu non aggiungerai niente, tu non sottrarrai niente.
Non siamo quindi noi ricaduti nel dibattito che Jacques Derrida ci ha reso non presente, ma nei confronti del quale ci ha messo in guardia al fine di non trascurarlo pur mantenendolo in disparte?
Prima del mistero della scrittura delle Tavole, Mosè, lo sappiamo, s'è interrogato sulla Voce. Per lui parlare non è una cosa che vada da sé. Quando «Dio» gli comanda di parlare al Faraone affinché questo liberi gli schiavi ebrei (abolisca la schiavitù), Mosè è molto affranto, perché (secondo la traduzione di Chouraqui [9]) egli sa e ricorda d'essere «pesante di bocca, pesante di lingua, dalla labbra impure» [10], dunque incapace d'utilizzare il linguaggio dell'eloquenza e della retorica che si addice ai grandi di questo mondo. Da qui l'irritazione divina. Mosè precisamente è stato scelto perché non è un buon parlatore, perché ha delle difficoltà di linguaggio: senza il controllo di Voce, senza dubbio balbettante. Mosè si farà dunque doppiare da suo fratello Aaronne, più dotato di lui per quanto riguarda le questioni mondane (sempre problemi e segreti con i fratelli), ma anche (e io anticipo questo tremando) inabile a parlare se non doppiando, ripetendo le parole, fossero pure supreme, a causa del suo biascicamento, non fisico, ma «metafisico».
André Chouraqui
Da qui un assunto così ardito che io sono sicuro che si tratta di una tentazione. Allorché Mosè interroga «Dio», si guarda bene dal domandargli il suo nome, terribile indiscrezione, poiché se avesse avuto questo nome egli avrebbe avuto qualche autorità sul Denominato. No, ciò che egli chiede, non lo chiede per sé, né per conoscere l'innominabile, ma per avere qualcosa da dire ai suoi compagni che non mancheranno di domandargli: da dove ti viene questa rivelazione, in nome di chi parli? Gli Ebrei, sebbene siano schiavi, non obbediscono senza essere informati, essi vogliono sapere con che cosa hanno a che fare. E la risposta che fu data a Mosè, espressa dalla virtù del necessario biascicamento, richiederà commentari su commentari. Io cito (recito) ora: «io sono colui che è» (interpretazione ontologica, primato e glorificazione dell'Essere senza ente [étant]: Eckhart, il caro maestro renano (o il vecchio maestro) non l'accetterà). Ora: «Io sono colui che sono» [11]. Questa risposta può passare non per una risposta, ma per un rifiuto di risposta. Sublime o deludente ripetizione, ove interviene il pensiero temerario, e se ciò che ci è dato ad intendere (o a leggere) fosse il raddoppiamento dovuto a una Voce balbettante, ricca grazie al balbettio, di modo che se Mosè si fosse espresso in latino (perché no? Dispone di tante lingue) avrebbe detto: Sum, Sum. Nel Talmud, senza che si faccia riferimento alla particolarità di Mosè, si trova enunciato: Una parola è stata proferita da Dio, ma io ne ho intese due. Ma torniamo alla interrogazione (fuori domanda, fuori risposta) di Mosè che non ha per nulla la pretesa di sapere il nome di Dio (lo ripeto, a mia volta), ma il nome tramite cui egli intercede [se réclame] per il popolo riluttante di Israele. Ed ecco un'altra risposta (quella tradotta da Meschonnic [12] e da Chouraqui [13]): «Sarò (qui un grande bianco per marcare non solo l'attesa o l'incertezza, ma il riferimento a un futuro non temporale, esente da ogni presente) chi sarò» (Edmond Flegg [14] ci dà la stessa traduzione). Dio non si dà immediatamente come soggetto, come un «Io» fiammeggiante, ma come agente per il popolo ebreo e dipendente dall'azione di quest'ultimo, azione di fronte a Dio e di fronte ad altri. È ciò che si chiamerà, utilizzando questa volta e forse abusivamente un nome greco, la Kenosis: l'umiltà sovrana. Ma, come a noi è noto tramite Rachi, nello stesso tempo in cui Mosè sente: «È il mio nome per sempre», egli ci dà a intendere attraverso un cambio di vocale: «Il mio nome deve rimanere nascosto», così che viene ad essere confermata la disponibilità [bienséance] – o la convenienza – della discrezione di Mosè. «Dio» dice anche, se ben ricordo «Neppure dai patriarchi mi sono fatto conoscere». Ciò non vuol dire però che il nome rivelato a Mosè per risvegliare Israele non sia un nome importante e che pertanto vada pronunciato in vano: non-presente detto e interpellato in quanto Sconosciuto afonico dice David Banon [15], ma non asemico, Dio promesso, Dio della promessa, ma anche Dio del ritrarsi dalla promessa.
Dio, dice Levinas, non è conoscenza, né una non conoscenza pura e semplice, è obbligo dell'uomo di fronte a tutti gli altri uomini. Quanto al nome esso non è che Yaveh, di cui Chouraqui precisa oggi – nella dispersione – che nessuno sa come fosse pronunciato perché, aggiunge Lévinas, il Tetragramma non poteva esserlo che dal solo Grande Sacerdote nell'entrare nel Sancta Sanctorum il giorno del Grande Perdono ovvero, per il giudaismo del post-esilio, mai (Al di là del Versetto [16]).
Jacques Derrida, esplicitando le esigenze dello sdoppiamento della Torah, sdoppiamento che è già iscritto nella maniera in cui la Torah è scritta «dal dito di Dio»: «La Torah è scritta con del fuoco bianco su del fuoco nero». Il fuoco bianco, testo scritto in lettere invisibili (fatte per sfuggire alla vista) si dà a leggere nel fuoco nero della Torah orale che viene après coup [17] a disegnarvi le consonanti e a puntualizzarvi le vocali: Legge o Verbo di fuoco, dirà Mosè.
Ma se la Torah di pietra è l'iscrizione di Dio, iscrizione che come tale dispiega i comandamenti, scrittura che non può non leggersi come prescrizione, è anche detto nell'Esodo (24, 4), e questo prima delle Tavole (supponendo, e vi è motivo di dubitarne, che vi sia in un tale momento al quale manca la presenza, un prima e un dopo – ovvero un ordina narrativo), che «Mosè scrive tutte le parole di Dio». Mosè ha dunque il dono della scrittura, se non ha il dono della parola – e egli scrive perché i Vecchi di Israele, i Saggi, hanno preliminarmente dichiarato: «Tutte le parole di cui “Dio” parla, noi le faremo». Forse essi non lo comprendono o, nella traduzione di Chouraqui [18], non riescono a penetrarlo nella loro rettitudine, come nei loro continui andirivieni, ma l'importante è farlo e questa promessa del compimento suggella la scrittura di Mosè, si fa per Mosè scrittura – scrittura e memorizzazione. Noi sottolineeremo qui brevemente quale differenza si stabilisce tra Platone e Mosè: per il primo, la scrittura esterna, straniera, è dannosa, perché supplisce alla perdita della memoria e così incoraggia il venir meno della memoria vivente (perché ricordare se è scritto?). Per Mosè certo la scrittura assicura la memorizzazione, ma essa è anche (o da principio) il «fare», l'«agire», l'esteriorità che precede l'interiorità o l'instaurerà – nello stesso modo il Deuteronomio, in cui Mosè riprenderà tutta la storia dicendo «Io», raddoppia e prolunga il difficile Esodo.
Derrida con il suo gatto Logos
Qui si potrebbe porre una questione vana: chi è Mosè? Eludiamo la risposta: un principe egiziano che tradisce il suo popolo per votarsi a un altro popolo, laborioso, infelice, schiavo. Eludiamo anche l'immagine sublime che ci offre l'arte: il Superuomo, l'equivalente ebraico di Solone e di Licurgo. Al contrario (se egli ha dei privilegi poiché è il solo a «salire», senza avvicinarsi ai cieli) egli ci è mostrato inadempiente [19], inabile a parlare (pesante di bocca), stanco al punto di perdere la sua salute per l'eccesso di servizi che rende (sarà suo suocero, uomo di buon senso, a dirgli: non fare tutto da solo, non preoccuparti per la giustizia delle piccole e delle grandi cose, altrimenti non sopravviverai – e Mosè annuisce). Stanco quando Amalec [20] fa la guerra agli Ebrei, nel momento in cui questi hanno appena lasciato l'Egitto e la schiavitù e costituiscono un gruppo sparpagliato (massa confusa, gregge), soprattutto con femmine, bambini, «la marmaglia», dice Chouraqui. Qui è la malvagità di Amalec che lo rivelerà come l'eletto del Male. Mosè non è un capo di guerra. Tuttavia lo si installa sulla sommità di una collina, come fanno i generali e Napoleone stesso. Ma bisogna coadiuvarlo quando gli si danno delle consegne, le quali sono apparentemente semplici: egli leva il braccio al fine di indicare il cielo e gli Ebrei lo portano via – ma appunto il suo braccio è pesante, e bisogna aiutarlo per fargli compiere il suo gesto – altrimenti il suo braccio ricade (non è semplicemente stanchezza, è anche una lezione) e Amalec vince.
Mosè è un mediatore? Mediatore del suo popolo, organizzato in comunità e vociferante contro di lui, allorché questo fallisce. Esso non si riconosce in lui: «Noi non sapevamo, dicono gli Ebrei ad Aaronne, chi fosse colui che ci conduceva». Altro, malgrado la sua fraternità, le sue costanti intercessioni, finanche i suoi castighi. Mediatore di Dio di cui trasmette i comandamenti? Dio è senza mediazione, dice, se non sbaglio, Levinas. Da qui deriva che la responsabilità di Mosè è libera, e che per lui è necessario subire, in punizione, le parole di troppo attraverso cui egli ha importunato l'Altissimo, parole di invocazione, di supplica per i fuggiaschi che dimenticano di esserlo e vogliono «stanziarsi».
Ci si può domandare quale fosse «l'errore» di Mosè, errore che gli impedirà di raggiungere «la buona terra». Ci sono sicuramente delle risposte privilegiate. Ma già in questo desiderio di raggiungere e di riposarsi vi è una speranza di troppo. Egli può vedere e non avere. Il riposo che gli è riservato è forse superiore. «É uno dei misteri di Elohim» che non è possibile svelare, che che richiedono l'insegnamento senza fine. Si dice, analizzando il Deuteronomio: Mosè non ha potuto raccontare, scrivere la sua morte (scetticismo critico). Perché no? Egli sa (di un sapere non lucido) che muore per «Dio» «sulla bocca di Dio», ultimo, estremo comandamento in cui v'è tutta la dolcezza della fine – ma fine sottratta. La morte, che è necessariamente nella vita, (da Adamo) «non ha luogo qui nella vita» (Derrida). E Dio, facendosi becchino (Levinas), prossimità che non promette la sopravvivenza, lo seppellisce nella valle, in terra di Moab, in un luogo senza luogo (atopico). «Fino ad oggi nessuno conosce la sua sepoltura», cosa che autorizza i superstiziosi a dubitare della sua morte, come si dubiterà di quella di Gesù. È morto ma «il suo occhio non s'è offuscato, non è svanita la sua linfa». Egli ha un successore, Giosuè, e non ne ha (alcuna eredità diretta; egli stesso ha rifiutato questa trasmissione). Non s'è levato ancora in Israele uno ispirato come Mosè. «Non ancora». Scomparsa senza promessa di ritorno. Ma la scomparsa dell'«autore» conferisce all'insegnamento una necessità ancora maggiore, scrittura (traccia anteriore ad ogni testo) e parola, parola nella scrittura, parola che non vivifica una scrittura che altrimenti sarebbe morta, ma al contrario ci sollecita ad andare verso gli altri, nella premura del lontano e del prossimo, senza che ci sia dato ancora di sapere che è da principio il solo cammino verso l'Infinito.


NOTE

* Traduzione di Grâce (soit rendue) à Jacques Derrida, Revue Philosophique de la France et de l'Étranger, T. 180, No. 2, DERRIDA (AVRIL-JUIN 1990), pp. 167-173. Integralmente reperibile presso il sito http://www.jstor.org/.
 Rendere il titolo in italiano non è agevole: sebbene il francese abbia il termine /merci/ per indicare il nostro /grazie/, vi sono locuzioni, per lo più alquanto risalenti, in cui anche /grâce/ rientra pienamente nell'ambito semantico del /ringraziamento/. Dal momento che è sommamente arduo rendere questa doppia sfumatura di /grâce/, preferiamo optare per una sorta di lectio difficilior enfatizzando, visto anche il contesto, il semantema proprio della grazia.
 Tutte le note sono del traduttore.
1. Esodo 33, 23.
2. Ivi 34, 28.
3. Ivi 4, 14-16.
4. Ivi 32, 1-29.
5. Ivi 32, 7.
6. Ivi 32, 19.
7. Ivi 6, 9.
8. Ivi 32-33.
9. Nathan André Chouraqui, La Bible, Paris, Desclée de Brouwer,‎ 2010.
10. Esodo 4, 10.
11. Ivi 3, 4.
12. Henri Meschonnic, Les Noms, traduction de l'Exode, Desclée de Brouwer, 2003.
13. Cfr nota 10.
14. Edmond Fleg – nom de plume di Edmond Flegenheimer – fu romanziere, saggista drammaturgo ebreo-francese vissuto tra la fine dell'Ottocento e il primo Novecento. Blanchot fa riferimento ai suoi studi sul pensiero ebraico, ma è difficile stabilire con precisione quale sia l'opera qui direttamente chiamata in causa.
15. David Banon, fine studioso della cultura ebraica. Cfr soprattutto La Lecture infinie: les voies de l’interprétation midrachique, préfacé par Emmanuel Lévinas. Paris, Éditions du Seuil, 1987 e Entrelacs. La lettre et le sens dans l’exégèse juive. Éditions du Cerf, Paris 2008.
16. E. Lévinas, L'Au-delà du verset : lectures et discours talmudiques, Paris, Minuit, 1982.
17. Lasciamo non tradotta questa espressione che è assolutamente portante non solo nel pensiero di Derrida, ma anche nella riflessione di Blanchot.
18. Cfr nota 10.
19. Il testo originale reca /defaillant/; noi rendiamo con /inadempiente/, intendendo però /inadempiente per debolezza/, esplicitando in tal modo un tratto semantico contenuto nel lemma francese, ma assente invece nel termine da noi scelto per la resa in italiano.
20. Esodo 17, 8-16.

 Sia l'esodo che la voce rinviano ad un'uscita. Richiamano l'abbandono di uno spazio, estraneo nel primo caso, proprio - forse intimo - nel secondo e puntano ad accedere nella latitudine ineffabile di un altrove da cui sia preclusa ogni possibilità di ulteriore sortita.
 L'esodo è il luogo di un transito, è lo spazio definito dal transito che ha luogo in esso e che dà luogo ad esso, in uno sdoppiamento necessario e irriducibile di questo stesso luogo in due poli - provenienza e arrivo - tra i quali il cammino prende forma e si precisa, a volte coi caratteri di uno spostamento orientato, altre volte assumendo la fisionomia di uno smarrimento, spesso oscillando senza resto tra i due, in una compenetrazione intestina e indistinta di entrambi i poli, che giungono a sovrapporsi secondo la misura di un passo compiuto ignorando la propria destinazione o forse individuata solo azzardandola.
 La voce in egual modo si situa nell'intervallo insensibile di un attraversamento e fa del proprio avvento il non-luogo ove può instaurarsi il frangente prezioso e fragile del silenzio, dell'attesa anteriore alla parola, violata e al tempo stesso rafforzata da questa.
 La voce e l'esodo disegnano in absentia lo spazio a partire dal quale sarà possibile la loro manifestazione, aprendo quel vuoto inavvertito e insondabile in seno al quale sono chiamati a raccolta i nomi utilizzati fino alla loro estrema consumazione per indicare in uno stesso gesto i limiti dell'indicibile e i margini dell'inaccessibile.
 La voce e l'esodo eludono la mediazione nel momento stesso in cui pongono le condizioni che dovrebbero legittimarla o provocarla. Il contatto che essi propongono ha pertanto le dimensioni di una distanza senza rapporto, che separa ciò che si fronteggia in una frantumata agonia di lontananze, in un sistema aperto di scambi strutturato a partire dalla impossibilità di un incontro. Incontro dunque come rottura, rottura con Dio, da Dio, in Dio. Da qui l'origine della storia, della narrazione, della scrittura e dell'interpretazione; della scrittura vista come foglio bianco pieno di strade, lungo cui l'interpretazione del libro si muove e si anima come una linea definitivamente spezzata che un tempo raccordava la parola perduta e la parola promessa e in cui tutte le lettere formano l'assenza del locutore. In tal modo l'interpretazione diventa interrogazione interminabile, rottura stessa di ogni totalità.
 La scrittura appare qui come quello spazio infinito in cui si annuncia da ogni lato la possibilità della propria estinzione, la cessazione improvvisa di quell'apertura che cerca di riflettere se stessa attraverso la comparsa di un altrove collocato al proprio centro, come un occhio nell'occhio, come una voce anonima la quale tenti di proferire unicamente il proprio ripetersi in un doppio che sia la cifra ignota del suo ritorno verso ciò che la altera e la aliena, la rappresenta mediante quella soglia che ne solca recisamente l'identità rendendola un centro ellittico. La scrittura qui lavora come una ripetizione che tenti di replicare ciò che non si è mai prodotto, simile a una veglia nell'intervallo dei limiti, per dirla con Jabès.
 La scrittura come esodo della Voce o dalla Voce? Semplicemente, scrittura come memoria notturna di ogni linguaggio.
 
(Traduzione e commento di Crivella Giuseppe)