sabato 21 marzo 2015

Disfunzioni di una macchina metafisica

Giuseppe Crivella
 
Holy Motors – motori sacri – probabilmente già dal titolo denuncia una doppia ascendenza, una natura anfibia, una derivazione ibrida: l'evocazione di un articolatissimo congegno vagamente metafisico che, posizionato dietro le quinte della realtà, fa funzionare quest'ultima come un precisissimo dispositivo ad orologeria, ove il tempo sembra essere la dilatata pausa verticale che ciclicamente torna al proprio punto zero per ridisporre i fattori in gioco secondo nuove modalità di sviluppo dagli esiti sempre imprevedibili [1], e dove lo spazio si è aggregato nelle anodine sembianze di una Parigi sulfurea e post-cubista, simile ad una figura topologicamente assurda, percorribile dunque secondo tragitti impropri alle geometrie del mondo fisico a noi familiare.
Va da subito precisato che l'assunto da cui Carax muove in questo suo ultimo film non risulta mai chiarissimo; tuttavia di ciò non gli si può fare una colpa: egli procede sulla spinta di una poderosa ispirazione immaginifica – a tratti visionaria – affiancando l'uno all'altro episodi di brutale quotidianità, i quali però d'improvviso s'infiammano di fronte a noi rivelando puntualmente un doppio fondo di rarefatta finzionalità intrisa di livida sottigliezza meditativa.
Anche qui Carax, così come negli altri suoi films, procede con uno smembramento chirurgico del dato reale, strutturando cioè una serrata consecuzione di piccoli nuclei narrativi tutti perfettamente conclusi in se stessi e inanellati lungo il percorso che la Limousine di Céline-Oscar traccia per le vie di Parigi. In tal modo almeno due risultati strettamente connessi tra loro vengono raggiunti: da una parte il film è sottoposto a una minuta disarticolazione attraverso una libera giustapposizione di cellule narrative perfettamente determinate nel loro sviluppo e dunque rivolte a prospettare uno spaccato sempre pulsante del reale; dall'altra parte Carax tesse una sotterranea linea metanarrativa [2] che, oltre a saldare le suddette cellule, permette anche di riflettere su di esse e su ciò che accade nel momento in cui queste si sono appena concluse o stanno per riaprirsi su nuovi ed inediti scenari, evocando così una procedura di racconto molto affine a quella già sperimentata nel '79 da Calvino con il romanzo Se una notte d'inverno un viaggiatore [3].
La vicenda pertanto si snoda fin dalle prima battute sdoppiandosi in una netta complanarità di due flussi narrativi, i quali tuttavia non scorrono secondo un disegno parallelo, ma piuttosto si raccordano l'uno all'altro tramite un fragilissimo gioco di incastri, intrecciandosi come in una dissonante fuga a due voci in cui il momento di contatto e sovrapposizione della doppia linea di sviluppo è sempre rimandato verso un ipotetico culmine, dove principio e fine verrebbero a coincidere, forse sancendo l'arresto definitivo del motore sacro il cui duplice tempo regge e scandisce l'intero svolgersi del film.
All'interno di questa ritmica binaria, lacerti effimeri d'esistenze flebilmente abbandonate sui margini affilati della memoria affiorano attraverso il protagonista, il quale, con sonnambolica lucidità, trapassa da una vita all'altra, accumulando sulla dura spigolosità del proprio corpo un detritico mosaico di vicende sagomate unicamente sull'interpretazione di un protagonista che (si) scopre sempre essere l'allucinata controfigura d'un personaggio altrimenti assente, invaso ogni volta da una luce lancinante, la quale finisce col bruciare ciò che illumina: il dramma d'identità fatiscenti e scomposte, in grado però di assumere una relativa coerenza interna solo mimando come da copione – i dossiers che Oscar svogliatamente scorre nella Limousine – un vissuto estraneo ma, proprio per questo, tanto frammentario quanto momentaneamente compiuto.
Holy Motors esibisce così una struttura diastemica [4], intessuta da una reiterata scansione di discontinuità, che però non scompongono affatto in modo catastrofico l'assetto del film, ma anzi lo rendono alquanto coeso conferendogli una sorta di linearità superiore, intensiva, in quanto risultante da una pragmatica diegetica trasversale – cioè, come detto, deputata a connette narrazione e meta-narrazione in un inesausto gioco di rispecchiamenti slittanti l'uno nelle zone di interruzione dell'altro – la quale fa del deragliamento la traccia certa in base a cui raccogliere in unità il continuo déferlement della trama. Carax, quasi risalendo a contropelo la storia del cinema, propone ciò che potremmo chiamare uno smontaggio di attrazioni: i vari nuclei narrativi orbitano tutti attorno alla figura – ora evanescente ora ben marcata – di Oscar, disarticolandone il vissuto, trasformando ogni suo dato esistenziale in una postulazione impersonale e allucinatoria. Ma nonostante questa vasta topografia ellittica che regge tutto il racconto, quest'ultimo non può non compattarsi, riaggregarsi freddamente e ferocemente attorno ad una zona d'ombra densamente infestata da tutto ciò che Oscar ha cercato fino a quel momento di eludere e schivare.
Più che emblematica è allora l'inquadratura in cui egli percorre con Eva/Jean gli ambienti spogli e deserti di un grande magazzino in disuso, incontrando sul suo cammino mani, busti, arti inferiori, teste di manichini in pezzi abbandonati alla rinfusa sul pavimento grigio di polvere. La scena è ripresa dall'alto, a voler confondere i due personaggi tra quei corpi fittizi a brandelli, a volerli quasi schiacciare su quel pavimento vuoto, assurto dunque a metafora sia di quel disumano spazio d'esilio che è la Limousine di Céline, sia di quel cimiteriale inventario di frammenti, la cui molesta refrattarietà ad essere riassemblati in un intero riflette il nauseato ostinarsi di Oscar a non voler riassorbire in sé le sparute ed affilatissime schegge di una vita – quella con Jean/Eva, appunto – che egli sa tuttavia essergli un tempo appartenuta.
E, forse proprio per questo, le immagini sono qui decisamente colpite da uno strano bifrontismo [5]: da una parte esse narrano le vicende incarnate da Oscar – sempre più sbilanciate verso il momento estremo della morte – e dall'altra divengono doppi simulacrali di una biografia bianca, astratta e spersonalizzata, semplicemente potenziale e quindi del tutto inattuata, simile all'orizzonte vuoto di una narrazione andata definitivamente in stallo. In seno a tale duplice trazione incrociata di massima e polimorfa propulsione diegetica e assoluta stasi narrativa, il film sviluppa la propria grammatica profonda, una grammatica in cui l'incardinarsi orizzontale degli eventi simultaneamente contesta e promuove la linearità di una struttura aperta ove scorgere con sempre maggior precisione la possibilità di annodare i vari episodi almeno secondo altre due matrici alternative al semplice affiancamento: in modo circolare, ovvero seguendo un tempo curvo infinitamente fatto di ritorni e ripetizioni – possiamo infatti supporre che ogni Oscar impersoni la vecchia questuante deforme, il padre della bambina, il killer ecc – ma anche in modo trasversale, cioè secondo un tempo intensamente e capillarmente frantumato, fatto di singole vicende che non si giustappongono, ma si richiamano le une con le altre, tramite nessi di analogie riposte, come relitti di una catastrofe di ricordi appartenuti a molti soggetti diversi, ma ora non riguardanti più nessuno [6]. In tal senso i “copioni esistenziali” di oscar valgono come archivi/obitori di vissuti definitivamente dismessi.
Usando una metafora potremmo dire che quello messo in campo da Carax è uno strano e ingannevole gioco di scatole cinesi: esso non si attua per inclusione progressiva delle une nelle altre in un unico spazio interno e comune ad esse, ma piuttosto procede per esclusioni reciproche e rifrazioni a distanza degli episodi, che si dispongono in gravitazione, privi però di un campo unitario di distribuzione. E tuttavia, pur nell'assenza di questo piano comune, sono proprio interruzioni distanziamenti e fratture a diventare i principi d'ordine e interconnessione che saldano la/e storia/e secondo un geometrico ma flessibile intrico, le cui linee di sviluppo incastonano i singoli récits lungo quella soglia circolare che rappresenta il perimetro al di qua del quale la vita di Oscar viene – o dovrebbe venire – salvaguardata da ogni compromissione emotiva, e al di là del quale le varie vicende si dipanano quali pure proiezioni illusorie su di uno schermo vuoto.
Tornando pertanto a quanto si diceva poco sopra, le immagini risultano bifronti perché il doppio versante secondo cui si snoda il film obbedisce ad un principio di autoimplicazione che costringe i due lati ad incrociarsi proprio attraverso quello schermo vuoto – il vissuto di Oscar – nel cui angusto spazio le immagini proliferano come le volute di un labirinto di fumo [7].
Tuttavia lentamente tale delicata dialettica è colpita da scompensi, effrazioni, interferenze che sovvertono il labile equilibrio preposto in apertura a far scivolare i due piani l'uno sull'altro, come due nastri che, seppur lasciati scorrere frontalmente l'uno all'altro secondo direzioni simmetriche e inverse, improvvisamente trovassero un sorprendente addentellato, il quale perviene a bloccare la spinta progressiva e costante di entrambi. La grandezza di Carax infatti sta proprio nella sua magistrale e spietata bravura a scombinare sempre senza preavviso quelle stesse regole che egli stesso enuncia all'inizio della pellicola, facendo in modo che proprio là dove ci aspetteremmo un semplice succedersi di vicende scollegate e discontinue si delinei invece con sempre maggior unitarietà una compagine narrativa particolarmente densa e sfaccettata, nella quale paradossalmente viene a riassorbirsi anche quel plesso da noi più sopra definito come metanarrativo.
Emblematica in tal senso è allora la lunga sequenza che occupa buona parte della seconda metà del film,
sequenza in cui Oscar “fugge” senza preavviso e apparentemente senza motivo dall'auto ferma per un piccolo tamponamento – i Motori Sacri, dobbiamo supporre, operano anche par hasard – e, avvicinatosi ad un'altra Limousine, scorge il volto di Eva/Jean. È in questo dolorosissimo frangente, contrassegnato da un riconoscimento inopinato e sconvolgente – riconoscimento reciproco, dal momento che anche Eva/Jean ritrova nel volto di Oscar i tratti di un viso già incontrato in precedenza –, che il doppio registro del film deraglia, avvitandosi intorno ad un unico perno instabile [8]. Le due matrici qui si elidono a vicenda in forza di una sospensione che schiude nella trama un trasparente trauma, nel cui intervallo per un attimo Oscar cessa di impersonare le vite degli altri, affacciandosi d'improvviso sul paesaggio lunare del proprio desolato vissuto.
Per un ardito effetto di rimandi speculari lo stesso capita a Eva/Jean, la quale tuttavia sarà costretta a far coincidere tragicamente l'addio da Henry con l'addio – vero o presunto? – dato a Oscar e culminante nel suicidio – anch'esso vero o presunto? – dinanzi al quale egli, forse per la prima volta in tutto il film, è assalito da un moto genuino e spontaneo di terrore ed angoscia che lo spinge a “fuggire” di nuovo nella Limousine, quasi fosse un grembo protettivo e consolante.
La morte dunque, in questo istrionico sedimentarsi di vite parziali e disperse, è forse l'unico dato davvero reale, il solo momento in cui Oscar riesce ad aderire a se stesso ritrovando la propria deforme identità avvertita però come un luogo d'aliene spettralità risorgenti sotto forma di rotte iridescenze lungo un tempo divenuto deriva nel divenire, illogica regione d'un'esistenza bruta e nuda, sottratta cioè allo schermo estraniante del copione.
La morte, ha scritto una volta Ungaretti, si sconta vivendo. In primis quella degli altri, sembra chiosare Carax.


NOTE
1. Cfr M. Butor, Répertoire I, ed de Minuit, Paris, 1960, pp. 94-109.
2. Cfr J. Ricardou, Problèmes du nouveau roman, ed du Seuil, Paris, 1967. Nello specifico i tre saggi conclusivi della prima sezione Les allées de l'écriture, Plume et caméra, Page, film, récit, nonché l'ultimo scritto della quarta parte L'histoire dans l'histoire.
3. In particolare qui si fa riferimento alla lettura di Segre in C. Segre, Teatro e romanzo, Einaudi, Torino, 1984, pp. 134-168.
4. Palesiamo qui il nostro debito nei confronti del saggio di R. Barthes, Littérature et discontinu (cfr Oeuvres Complètes II, Gallimard, Paris, 2005, pp. 430-441) almeno per quanto riguarda le analisi esposte in esso in apertura. Per quanto riguarda invece il prosieguo del nostro testo, ci discostiamo in toto dalle posizioni a cui perviene Barthes a conclusione del suddetto scritto.
5. Cfr R. Bellour, Fra le immagini, Mondandori, Milano, 2007, con specifico riferimento a quanto l'autore dice a pagina 226 su scorrimento, stratificazione e spazializzazione delle immagini in termini di dispositivo.
6. Cfr C. Ollier, Souvernir, écran, Cahier du cinéma/ Gallimard, Paris, 1981. Con riferimento al saggio dedicato al Muriel di Alain Resnais; in esso l'autore sottolinea come punti di risonanza, zone di attrazione o divisione, ramificazioni e associazioni oblique disegnino in filigrana l'intreccio attraverso un suo variabile e continuo ampliarsi o restringersi.
7. Cfr P. Bonitzer, Le champ aveugle, Petite bibliothèque des Cahiers du cinéma, 1999. In particolare qui è stato tenuto presente il saggio intitolato Bobines ou: le labyrinthe et la question du visage, pp. 53-64.
8. Cfr J. Ricardou, Problèmes du nouveau... pp. 171 sgg.