domenica 22 febbraio 2015

Il tempo del mito

di Claude Lévi-Strauss [*]

Traduzione di Maria Gaia Crivella

Claude Lévi-Strauss
In un’opera recente sull’analisi formale dei miti, Buchler e Selby sostengono (p. 68) [1] che si possono formulare regole che permettono di dedurre successivamente tutte le trasformazioni mitiche a partire da una qualunque tra di esse, a condizione di riconoscere il carattere “non ricorsivo” o “indecidibile” di queste. Questo è vero, senza dubbio, di ciascun mito preso separatamente; ma abbiamo mostrato come queste sequenze “indecidibili”, tenuto conto di questo o quel mito particolare, si riducono spesso a trasformazioni reciproche, in qualche modo perpendicolari a più discorsi mitici sovrapposti [2]. Si può dunque dar ragione a questi autori finché ci si limita all’analisi di un mito o di un gruppo determinato di miti; ma è proprio di un mito o di un gruppo di miti di impedire di rinchiudervisi: viene sempre un momento, nel corso dell’analisi, in cui un problema si pone e, per risolverlo, si è obbligati a uscire dal cerchio che l’analisi aveva tracciato. Lo stesso gioco di trasformazioni, che permette di ricondurre l’una all’altra le sequenze di un mito dato, si estende in modo quasi automatico alla sequenza indecidibile, ma ugualmente riducibile al di fuori del mito ad altre sequenze indecidibili, provenienti da miti a proposito dei quali si poneva lo stesso problema.
In fin dei conti, per ogni sistema mitologico non c’è che una sequenza assolutamente indecidibile. Ricondotta da trasformazioni successive ai suoi contorni essenziali, essa si riduce all’enunciato di una opposizione o, più esattamente, all’enunciato dell’opposizione prima tra tutte quelle date.
Così per l’America, sia del Nord che del Sud, abbiamo potuto verificare che diverse centinaia di racconti in apparenza molto diversi tra loro e ognuno per suo conto molto complesso, procedono da una serie di constatazioni concatenate: c’è il cielo e c’è la terra; tra i due non sapremmo concepire la parità; di conseguenza, la presenza in terra di questa cosa celeste che è il fuoco costituisce un mistero; infine, e poiché il fuoco del cielo si trova ora quaggiù come focolare domestico, si è reso necessario che dalla terra si sia andati in cielo per cercarlo.
Da ciò risulta che la sequenza assolutamente indecidibile si riduca, se non all’affermazione empiricamente decidibile che c’è un mondo (quando niente sarebbe potuto esistere) almeno a quella che questo essere del mondo consiste in una disparità. Del mondo non si può dire puramente e semplicemente che è: è sotto la forma di una asimmetria prima, che si manifesta diversamente secondo la prospettiva in cui ci si pone per apprenderlo: tra l’alto e il basso, la terra ferma e l’acqua, il vicino e il lontano, la sinistra e la destra, il cielo e la terra, il maschio e la femmina, ecc. Inerente al reale, questa disparità dà impulso alla speculazione mitica; ma perché essa condiziona, non solo il pensiero, ma l’esistenza di ogni oggetto di pensiero.
Un assortimento di opposizioni, in qualche modo montato in anticipo nell’intelletto, funziona quando esperienze ricorrenti, che possono essere di origine biologica, tecnologica, economica, sociologica, ecc. azionano il comando, come quei comportamenti innati che si attribuiscono agli animali, e le cui fasi si svolgono automaticamente a partire da una circostanza che fa scattare gli ingranaggi. Ugualmente sollecitata da tali circostanze empiriche, la macchina concettuale si mette in moto; da ogni situazione concreta, per quanto complessa possa essere, essa estrae infaticabilmente del senso, e fa di essa un oggetto di pensiero piegandola agli imperativi di un’organizzazione formale. Ugualmente, è applicando sistematicamente delle regole d’opposizione che i miti nascono, sorgono, si trasformano in altri miti che si trasformano a loro volta; e così di seguito, finché soglie culturali o linguistiche troppo ardue da varcare o l’inerzia propria della stessa macchina mitica non liberano più che forme indebolite e rese irriconoscibili, perché i caratteri propri del mito sfumano a vantaggio di altre forme d’elaborazione del reale che possono, secondo i casi, appartenere al romanzo, alla leggenda o alla favola concepita a fini morali o politici [3].
Il problema della genesi del mito si confonde dunque con quello del pensiero stesso, la cui esperienza costitutiva non è quella dell’opposizione tra me e l’altro, ma dell’altro appreso come opposizione. In mancanza di questa proprietà intrinseca, la sola, in verità, che sia assolutamente data, non sarà possibile alcuna presa di coscienza costitutiva del me. Non essendo percepibile come rapporto, l’essere equivarrebbe al niente. Le condizioni per la comparsa del mito sono dunque le stesse di ogni pensiero, poiché esso non saprebbe essere che pensiero di un oggetto e un oggetto non è tale, se semplice e spogliato ciò che lo concepisce, che del fatto che costituisce il soggetto come soggetto e la coscienza stessa come coscienza di una relazione.
Perché un mito sia generato dal pensiero e generi a sua volta altri miti, è necessario e sufficiente che una prima opposizione si inietti nell’esperienza, da cui risulterà che altre opposizioni saranno iniettate di seguito. Quella tra alto e basso ammette tre modalità, secondo cui il passaggio da un polo all’altro si produce in un certo senso, nel senso contrario o in entrambi. Talvolta mantenuto verticale, talvolta posto in orizzontale, o ancora in entrambi i sensi insieme, l’asse di relazione avrà per poli il cielo e la terra, il cielo e l’acqua, la terra ferma e l’acqua. Nell’ordine dei corpi celesti, astri individuali come il sole e la luna si oppongono alle costellazioni e quelle, o i corpi celesti tutti insieme, alla massa indistinta delle stelle anonime. Considerati nel loro rapporto reciproco, il sole e la luna stessi possono essere entrambi maschi, entrambi femmine, o appartenere a sessi diversi [4]; essi potranno essere anche estranei l’uno all’altra, amici, consanguinei o alleati. Ugualmente e quali che siano i protagonisti, la parentela concepita sul modello della consanguineità o dell’alleanza sarà ascendente o discendente, diretta o obliqua, considerata dal punto di vista di chi prende donne o di chi dà. A ogni livello d’opposizione corrispondono altre imprese speculative per conferire un senso ad altrettanti tagli praticati nel reale.
Lévi-Strauss con Oppenheimer e Whipple
Resta da sapere perché, nel caso di cui ci occupiamo, tutti i fili conduttori di queste imprese multiple sembrano convergere verso una regione tutto sommato limitata dell’America del Nord, a cui gli etnologi, almeno sotto questo aspetto, non hanno prestato particolare attenzione. È là, pertanto, che si giustappongono le forme più deboli del mito sulle spose degli astri, talvolta ridotto alle proporzioni di un racconto di campagna – stato più debole di questo insieme già molto debole che costituiscono le versioni dette della mezzaluna settentrionale - e quelle di forme forti che possiamo considerare come le più forti di tutte, e di cui la guerra tra esseri terrestri e celesti per la conquista del fuoco fornisce il tema.
Ora, questa singolarità non è la sola che colpisce quando consideriamo quella che per semplificare chiameremo l’area dell’Oregon. È anche là che troviamo, giustapposti in maggior numero, i gruppi umani più piccoli, occupante ciascuno un territorio ridotto, e che differiscono dai loro immediati vicini per lingua, tradizioni, spesso anche per la cultura. Per attenerci al solo aspetto linguistico, sulla costa pacifica e nell’immediato entroterra, tra il 40º e 50º parallelo abitavano insieme a pochi chilometri di distanza le famiglie più diverse: Penutian, Hokan, Athapaskan, Algonkin, Chinook, Salish, Chemakum, Wakashan… Non è tutto. Quando si considera una carta della distribuzione tribale e linguistica come quella, ora classica, compilata da Driver, Cooper, Kirchhoff, Massey, Rainier e Spier [5], quale che sia la prudenza che s’impone davanti a suddivisioni e convenzioni inevitabilmente arbitrarie, non mancherebbe di essere colpiti da un aspetto generale che evoca un taglio istologico in un tessuto vivo. Tutta la regione compresa tra la Rocheuses e il Pacifico, soprattutto nella parte mediana, offre l’immagine di tre piccole cellule, diverse per forma e organizzazione, e la cui distribuzione molto densa, tutta nel senso della lunghezza, fa pensare a qualche strato profondo e germinativo, contrastante con le cellule sempre più allentate, che notiamo percorrendo il taglio da ovest a est e che rassomigliano maggiormente ad un tessuto connettivo. Considerata in questa prospettiva, l’involuzione costiera formata dal distretto di Georgia, quello di Juan de Fuca e Puget Sound, intorno al quale si organizza la singolarità dell’Oregon, appare come una sorta di nodo ombelicale delle culture nordamericane, che marca il punto che le legò forse un tempo a quello che, concretizzando una nozione astratta, potremmo definire il loro cordone alimentare.
In una tale ipotesi, di cui si eviterà di esagerare la portata, i miti su cui termina il nostro inventario rappresentavano le forme sempre vive, ma anche le più ricche e meglio preservate, di un sistema che, diffondendosi verso est e sud, si sarebbe progressivamente decomposto, di cui non abbiamo che ritrovato, fino al cuore dell’America del Sud, i frammenti trasportati e sparpagliati durante i secoli dal flusso delle migrazioni. Raccogliendo e mettendo a confronto questi frammenti, noi avremo pazientemente ricostruito questo sistema nel corso della nostra impresa, risalendo passo passo fino alla sorgente dove, in uno stato ancora relativamente intatto, noi l’avremo infine ritrovato.
Potremmo d’altra parte interpretare le cose in un altro modo. Invece di vedere nella singolarità dell’Oregon il punto dello spazio-tempo dove tutti i fili di un sistema mitico primordiale, altrimenti sfilacciato, si tenevano ancora insieme per effetto di una sopravvivenza, potremmo considerare che dei racconti, distinti in origine, vengono a fondersi e unirsi, come altrettanti elementi di un sistema possibile che un’operazione di sintesi ha fatto passare all’atto. Virtuali dappertutto, miti ridotti a stati del sistema, solo in un’epoca e in un luogo sarebbero giunti ad articolarsi e organizzarsi per generare qui un mito vivente.
Ma si vede anche che, dal punto di vista dell’analisi, le due ipotesi si equivalgono perché, partendo dall’una o dall’altra e mediante una inversione generale di tutti i segni, le nostre operazioni si sarebbero svolte nello stesso modo. Dal fatto che il sistema globale che ci siamo impegnati a restituire è chiuso, ciò si configura come un esplorare dal centro verso la periferia, o da una superficie verso l’interno: in ogni modo, la sua curvatura intrinseca garantisce che sarà percorso nella sua totalità. In una situazione di questo tipo, non sapremmo precisare se si discenda o risalga il corso del tempo.
Senza dubbio analisi locali permettono di stabilire tra certe trasformazioni mitiche dei rapporti di anteriorità; lo abbiamo più volte mostrato [6]. Ma quando ci si innalza ad un livello sufficientemente generale per contemplare il sistema dall’esterno e non più dall’interno, la pertinenza delle considerazioni storiche si annulla, nello stesso tempo in cui si aboliscono i criteri che permettono di distinguere gli stati del sistema che potremmo dire primi o ultimi.
La pensée sauvage, 1962
Così, è possibile che la più ingrata delle ricerche riceva la sua ricompensa: quella di avere, senza cercarlo né attenderlo, determinato il luogo di questa terra anticamente promessa dove si sarebbe placata la triplice impazienza di un più tardi che bisogna attendere, di un adesso che fu, di un vorace anticamente che attira a sé, disgrega, sprofonda il futuro nelle rovine di un presente già confuso nel passato.
In questo caso, la nostra ricerca non sarebbe stata solo quella del tempo perduto. Perché quest’ordine di tempo che lo studio dei miti svela non è altro, in fin dei conti, che l’ordine sognato da sempre dai miti stessi: tempo più che ritrovato, soppresso; come lo proverebbe chi, nato nel XX secolo, sarebbe penetrato dal sentimento, crescente con l’età, d’aver avuto, giovane, la fortuna di vivere nel XIX secolo vicino ai maggiori che vi parteciparono–- ma di non averlo saputo - come essi stessi, con la mediazione dei vicini che gli erano appartenuti, vivevano ancora nel XVIII secolo, ma non lo sapevano nemmeno; poiché abbiamo unito insieme le nostre forze per saldare le maglie della catena, ogni età si consacra a conservare in vita ciò che è stato per coloro che verranno, il tempo è stato verosimilmente abolito. E se tutti noi uomini l’avessimo saputo fin dalle nostre origini, avremmo potuto congiurare contro il tempo, di cui l’amore per i libri e i musei, il gusto per l’antiquariato e le anticaglie testimoniano, in un modo talvolta derisorio, che nel cuore stesso della civiltà contemporanea persiste un tentativo, senza dubbio disperato e ineluttabilmente vano, di fermare il tempo e invertirne il corso.
L’interesse che noi crediamo di rivolgere al passato non è dunque che interesse per il presente; legandolo saldamente al passato, crediamo di rendere il presente più duraturo, fissarlo per impedirgli di fuggire e divenire esso stesso passato. Come se, messo a contatto con il presente, il passato, per un’osmosi miracolosa, finisse per diventare esso stesso presente e, di colpo, il presente fosse premunito contro la propria sorte, quella di divenire passato. E, senza dubbio, è qui che i miti pretendono di fare ciò di cui parlano, ma è stupefacente che lo facciano veramente sulla base di ciò che essi sono.
Spinta fino al suo estremo, l’analisi dei miti attinge ad un livello in cui la storia si annulla. Come quegli Indiani Dakota del Canada che rimaneggiano la versione tradizionale di un mito tribale per neutralizzare la contraddizione, da loro vissuta nel corso di una recente migrazione storicamente accertata, tra le ideologie dei Sioux e degli Algonkin, tutti i popoli delle due Americhe sembrano non aver concepito i loro miti che per accordarsi con la storia e ristabilire, sul piano del sistema, uno stato d’equilibrio in seno al quale vengono ad ammortizzarsi le scosse più reali provocate dagli eventi. Altrimenti, come comprendere che questi elementi del sistema, da noi indicati come operatori binari – gallinacei, pesci piatti, farfalle e altri insetti, sciuridi ecc.- conservano la loro funzione semantica da un capo all’altro delle due Americhe, senza dover mai tener conto, per spiegare questa resistenza, di innumerevoli mutamenti demografici e culturali intervenuti durante i secoli?
Questa unità e questa solidità del sistema costituirebbero un mistero, se si prendesse del popolamento dell’America e dei rapporti storici e geografici tra i diversi gruppi una visione più giusta di quella verso cui ci porterebbe spontaneamente la nostra condizione di popolo detto civilizzato.
In primo luogo, la rapidità dei trasporti da un punto all’altro del globo, che noi tendiamo a considerare come una conquista recente, rischia di far sottostimare le distanze enormi che possono percorrere in qualche decina d’anni o qualche secolo delle piccole squadre di cacciatori o raccoglitori, per poco che essi vogliano procedere. Uno dei risultati più stupefacenti della ricerca archeologica nel Nuovo Mondo è la coincidenza approssimativa delle date più antiche d’occupazione dei due emisferi. Dai due lati dell’equatore, le stime sono risalite allo stesso ritmo e, nel momento in cui scriviamo, esse si stabiliscono qui e là nei dintorni del XII millennio prima della nostra era. È probabile che esse risalgano ancora, ma tutto lascia pensare che ciò avverrà di concerto. A partire dal momento in cui gli uomini sono penetrati senza saperlo in America, attraverso le terre emerse che formavano lo stretto di Bering, essi si sono metodicamente impegnati a occupare tutta l’estensione del Nuovo Mondo e qualche secolo è stato probabilmente sufficiente a gruppi capaci di camminare per diverse decine di chilometri al giorno, anche tenendo conto di arresti prolungati per mesi o anni, per distribuirsi a distanze più o meno considerevoli gli uni dagli altri, dall’Alaska alla Terra del Fuoco. È quello che si potrebbe chiamare un primo stanziamento di immigrati che ha riguardato l’intera estensione del continente, e in un tempo relativamente breve.
Ma non prestiamoci all’idea assurda che con questo primo insediamento le cose si siano fermate. Anche prendendo in esame due soli periodi del Pleistocene superiore, i movimenti glaciali hanno lasciato aperto il passaggio tra Vecchio e Nuovo Mondo, prima intorno al venticinquesimo millennio, poi tra il tredicesimo e il decimo circa, queste “finestre” furono sufficientemente ampie da permettere più ondate migratorie successive, scaglionate nei secoli o lungo decine di secoli. Ciascuna ha potuto sia approfittare di territori lasciati deserti, sia distruggere o allontanare i precedenti occupanti. Noi abbiamo anche ammesso [7] che, durante questa lunga storia, non sono da escludere i riflussi delle popolazioni, poiché non c’è ragione per cui esse si siano sempre dirette nella stessa direzione.
Nel momento in cui la scoperta e la colonizzazione delle due Americhe andavano, in qualche modo, a fulminare e poi annientare il divenire storico del continente, tali movimenti di popolazione si producevano ancora e, durante i primi secoli, l’arrivo dei Bianchi li ha, secondo i casi, prevenuti, dominati, fatti precipitare. In America del Sud, in particolare tra i Tupi, questi movimenti sono proseguiti a intermittenza fino al XX secolo e osservatori qualificati ne furono testimoni. Riconosciamo tutto questo. Non è meno vero, in virtù delle nostre osservazioni precedenti, che osservate in un istante qualsiasi della loro storia, le due Americhe, benché vuote per 9/10 (ad eccezione dell’America centrale, il Messico, e la zona andina) hanno costituito un mondo pieno. Senza dubbio, non nel senso che una demografia divenuta soffocante conferisce a questo termine, ma tenendo conto che gruppi umani molto piccoli, ai quali una tecnologia rudimentale impone di sfruttare enormi spazi per la caccia e la raccolta e per i bisogni di un’agricoltura itinerante, possono effettivamente occuparli percorrendoli senza posa, anche se questa occupazione assomiglia più al modo in cui una quantità minima di gas si dilata e disperde le sue molecole nell’intero volume di un pallone, che all’ammassarsi di individui gli uni sugli altri nei complessi immobiliari. Malgrado la loro magra popolazione, i gruppi detti primitivi sanno esercitare attivamente la loro influenza su tutta l’estensione di un territorio, e fino ai limiti estremi dove l’equilibrio delle forze fa prevalere quella di altri gruppi. Ne risulta che invece di concepire il Nuovo Mondo dei tempi precolombiani come uno spazio praticamente vuoto in seno al quale, a centinaia di chilometri gli uni dagli altri, si sparpagliavano piccoli nuclei umani isolati, converrebbe piuttosto di rappresentarlo come un aggregato compatto di grosse cellule poco dense, ma popolata ciascuna in modo diffuso in tutto il suo volume, e le cui pareti combacianti acquisiscono da ciò una relativa rigidità.
Lévi-Strauss durante la sua spedizione in Brasile
Guardando le cose da questa angolazione, diviene concepibile che ogni creazione originale in un certo luogo
si ripercuote per contatto diretto negli altri luoghi, e che una dislocazione sopraggiunta in un punto del sistema provoca, poco a poco, la sua completa riorganizzazione. La fisica dei metalli aiuta a comprendere come un gioco molto debole tra le molecole di un corpo rigido basta perché si modifichi l’assetto generale, senza che l’aspetto e le proprietà esterne del corpo stesso cambino, quando una tensione che supera una certa soglia si esercita in un punto determinato. Durante questo tempo, è possibile nondimeno che questo corpo sia coinvolto dall’esterno in ogni sorta di processi chimici o meccanici che modificano la sua forma, la sua consistenza, il suo colore, le sue proprietà e gli usi ai quali si presta, ma i due tipi di fenomeni non sono dello stesso ordine di grandezza e non si svolgono sullo stesso piano.
È ora, per l’etnologia, di liberarsi dell’illusione, creata dai funzionalisti, che prendono i limiti pratici dove li rinchiude il genere di studi che essi preconizzano per delle proprietà assolute degli oggetti a cui si applicano. Non è una ragione perché un etnologo si rinchiuda per uno o due anni in una piccola unità sociale, una compagnia o un villaggio, e si sforzi di afferrarla nella sua totalità, per credere che ad altri livelli che quelli a cui la necessità o l’opportunità lo pongono, questa unità non si scioglie a gradi diversi negli insiemi che restano spesso insospettati. Ad ogni modo, due livelli discreti d’attività devono essere distinti nella vita dei popoli senza scrittura. Da una parte, quello che chiameremo il campo delle interazioni forti e che sono quelle alle quali, per questa ragione, si è soprattutto prestata attenzione: esse consistono in migrazioni, epidemie, le rivoluzioni e le guerre e si fanno sentire a intermittenza, sotto forma di scosse profonde i cui effetti sono ampi e durevoli. Ma accanto ad esse, è stato troppo trascurato il campo delle interazioni deboli che si producono ad una frequenza molto più rapida e con una periodicità molto ravvicinata, sotto forma di incontri amichevoli o ostili, di visite e matrimoni. Sono queste che mantengono il campo in uno stato di agitazione permanente. Questo fremito delle superficie sociali fa sì che ad ogni istante delle vibrazioni locali di debole intensità e dotate di bassa energia si ripercuotano poco a poco fino alle estremità del campo, indipendentemente da cambiamenti demografici, politici o economici che sopraggiungono meno spesso, agiscono più lentamente e a un livello più profondo.
Non è dunque contraddittorio riconoscere che ogni popolazione americana ha vissuto per proprio conto una storia molto complessa, ma che ha cercato di neutralizzare questi avatar, rimaneggiando i suoi miti in misura compatibile con le costrizioni delle forme tradizionali a cui devono sempre adattarsi. Una storia già attenuata da questo lavoro interno reagisce all’esterno su produzioni similari, si operano aggiustamenti o si generano nuove opposizioni, trasferendo su altri piani il bilancio perpetuo di similarità e contrasti. In occasione di incontri intertribali, di matrimoni, di transazioni commerciali o di catture guerriere tutte queste rettifiche scattano a catena e si propagano controcorrente, molto più rapidamente che i grandi eventi che sigillano il destino dei popoli. Appena scosso in un punto, il sistema cerca il suo equilibrio reagendo nella sua totalità, e lo ritrova grazie ad una mitologia che può essere causalmente legata alla storia in ciascuna sua parte ma che, presa nel suo complesso, resiste al suo corso, e riaggiusta costantemente la propria griglia per cui essa offre la minor resistenza al flusso degli eventi che - l’esperienza lo prova - è raramente abbastanza forte per sfondarla e riportarla nel suo flusso.


NOTE

* Articolo pubblicato su Annales. Histoire, Sciences Sociales, 26e Année, No. 3/4, Histoire et Structure (May - Aug., 1971), pp. 533-540. Testo integralmente reperibile presso il sito http://www.jstor.org/discover/10.2307/27566741?sid=21105421541301&uid=2&uid=4&uid=3738296&uid=2134&uid=70
1. I. R. BUCLER e H. A. SELBY, A formal study of Myth, center of Intellectual studies in Folklore and Oral History, Monograph Series 1, Austin, Texas, 1968
2. C. LÉVI-STRAUSS, Du miel au cendres, Paris, 1967, pp. 302-307.
3. C. LÉVI-STRAUSS, L'origine des manières de table, Paris, 1968, pp. 92-106; Comment meurent les mythes, in Sciences et consciences de la société. Mélanges en l'honneur de Raymond Aron, Paris, 1970.
4. C. LÉVI-STRAUSS, Le sexe des astres, in Mélanges offerts à Roman Jakobson pour sa soixante-dixième année, La Haye, 1967.
5. In H. E. DRIVER e W. C. MASSEY, Comparative studies of North American Indians, Transactions of the american philosophical society, NS vol 47, part 2, Philadelphia, 1957.
6. C. LÉVI-STRAUSS, Le cru et le cuit, pp 229, 313-317; Du miel aux cendres, pp. 295-307; L'origine des manières de table, pp. 210, 216-223, 321.
7. L'origine...p. 56.

Traduzione di Maria Gaia Crivella