sabato 23 maggio 2015

Sorrentino: La Grande Bellezza o la grande amarezza?

Giuseppe Crivella 
Un efferato calligrafismo del grottesco è forse ciò a cui l'ultimo film di Sorrentino sembra voler alludere con un titolo – La grande bellezza – ironicamente grondante promesse estetiche volutamente ambigue, ora caratterizzate da un volubile turgore, ora densamente astratte, ora sontuose ma discrete, tutte però sornionamente custodite dietro l'espressione divertita e perplessa di Jep Gambardella.
Ma andiamo con ordine. Innanzitutto sotto il profilo formale ci sembra che Sorrentino in questa sua ultima prova si sia in parte allontanato dalla cifra stilistica che aveva contraddistinto in modo piuttosto marcato i suoi ultimi lavori. Se in questi la tenuta dell'asse diegetico risultava sottoposta ad una certa opera di diluizione finalizzata a trasformare la narrazione in una sorta di sinuosa ballade, ne La grande bellezza il regista sembra recuperare una nozione forse leggermente più consistente di trama, componendo cioè la vicenda tramite una continua germinazione di noduli micro-narrativi i quali rendono l'intelaiatura su cui è imbastito il discorso filmico tanto rapsodica ad una prima occhiata, quanto compatta ed omogenea se osservata con la giusta distanza critica. Infatti nell'ensoriana babele di maschere, che di volta in volta occupano la scena o lo sfondo dietro Jep o al suo fianco, il pusillanime e la battona, il depresso e il vincente, l'opportunista avvenente e il cinico etoromane hanno tutti per un attimo lo stesso ghigno di ironico disprezzo e divertita accondiscendenza, di compiaciuta superiorità e sdegnata irriverenza che per tutta la pellicola galleggia sulla mobile plastica espressiva che Jep – quasi da navigato caratterista – oppone al mondo al solo scopo di (con)fondervisi sempre meglio, divenendo in esso l'astratta ipostasi retorica di una contestazione che trova il suo terreno fertile proprio in quel contesto, sgraziato e deforme, contro cui egli si scaglia ripetutamente, impotente e disilluso, feroce e distratto. La voluttà dissacrante di Jep si arena quindi ogni volta da capo nella sorda eco di una risata fuori posto – vorremmo dire quasi fuori scena – quale umbratile smorfia di disappunto che prosegue sempre oltre le continue ellissi del montaggio, le quali trasformano indefettibilmente la pellicola in un trasversale repertorio di situazioni paradigmaticamente affini tra di loro e dunque sottilmente equivalenti.
Se pertanto Sorrentino anche in questo film mette in campo una certa diserzione della diegesi – per rimanere fedele a quella poetica a cui poco sopra abbiamo accennato – lo fa grazie al formidabile manierismo del suo polimorfo registro registico, attraverso movimenti di camera che a raggiera – si veda, a titolo di esempio, il plesso delle sequenze iniziali – scoccano da innumerevoli angoli visuali del tutto estranei l'uno all'altro arrivando tuttavia a contrarre le varie linee di sviluppo in un metamorfico annodarsi di vicende e situazioni le quali, seppur semplicemente giustapposte tra di loro, formano una sorta di corpo unico composto però dai disparati frammenti anatomici di vari cadaveri.
Questo corpo è probabilmente quello Jep, vero e proprio cadavre exquisi, inconsapevole della propria aberrante vita postuma, esuberante ed estenuata al tempo stesso, o forse amaramente conscio del suo dilatato sopravviversi, creatura compiutamente post-moderna in quanto espressione di una modernità anch'essa postuma e quindi collocata in un tempo esteriore – o ulteriore – alla giusta misura di una vicenda storica che risulta essersi ormai definitivamente chiusa su se stessa e tuttavia attratta unicamente dal proprio variopinto sfacelo, portata quindi a perpetuarsi come una specie di spettacolo allestito sul vuoto.
Alla luce di ciò La grande bellezza ci sembra essere lo spoglio antologico di una deriva antropologica che tocca e coinvolge indistintamente ogni aspetto dell'umano, divenuto un volatile apparato – pensiamo per un attimo al titolo dell'unico romanzo pubblicato da Jep – di gesti e posture sedimentatesi lungo il corso di una vita orientata alla ricerca di una identità coerente e duratura e tuttavia sempre sottoposta allo scacco di scoprirsi di tanto in tanto piuttosto simile ad una specie di disabitato glomerulo esistenziale tenuto insieme dalla ricercata eleganza di modi e atteggiamenti i quali, pur riuscendo a delineare la personalità di Jep all'insegna della cultura e della raffinatezza, finiscono per snaturarla, rivelandone il distorto fondo d'angoscia e caricandola d'una goffaggine sinistramente teatrale, come bene illustra, ad esempio, l'episodio del funerale.
Ciò che viene ad essere tratteggiato in queste circostanze è una nodosa pantomima sempre squilibrata tra due eccessi convergenti entrambi verso il medesimo esito amaro e disarmante: sia che Jep voglia ostentare il dissidio insanabile tra la parte recitata e la propria invertebrata entità – smascherando così, attraverso se stesso, tutti coloro che tendono a calcificarsi nella prima – sia che egli miri a perseguire con dolce accanimento il tentativo di far coincidere integralmente i due versanti della sua persona – rivelando in tal modo una ricerca di autenticità definitivamente estinta in tutte le figure che si assiepano intorno a lui – in ogni caso Jep riesce soltanto a sottolineare la funesta insufficienza di entrambi gli sforzi. Le varie vicende convocate da Sorrentino ad intessere la trama de La grande bellezza finiscono così per raccogliersi e ruotare follemente e dolorosamente attorno alla misteriosa elusività di questo centro assente, simili ad una disordinata congerie di riflessi cospiranti tutti nel punto cieco di uno specchio infranto.