Giuseppe Crivella
Un
efferato calligrafismo del grottesco è forse ciò a cui l'ultimo
film di Sorrentino sembra voler alludere
con un titolo – La
grande bellezza –
ironicamente grondante promesse estetiche volutamente
ambigue, ora caratterizzate da un volubile turgore, ora densamente
astratte, ora sontuose
ma discrete, tutte però sornionamente custodite dietro l'espressione
divertita e perplessa di Jep
Gambardella.
Ma
andiamo con ordine. Innanzitutto sotto il profilo formale ci sembra
che Sorrentino in questa sua ultima
prova si sia in parte allontanato dalla cifra stilistica che aveva
contraddistinto in modo piuttosto
marcato i suoi ultimi lavori. Se in questi la tenuta dell'asse
diegetico risultava sottoposta ad
una certa opera di diluizione finalizzata a trasformare la narrazione
in una sorta di sinuosa ballade,
ne La
grande bellezza
il
regista sembra recuperare una nozione forse leggermente più consistente
di trama, componendo cioè la vicenda tramite una continua
germinazione di noduli micro-narrativi
i quali rendono l'intelaiatura su cui è imbastito il discorso
filmico tanto rapsodica ad una
prima occhiata, quanto compatta ed omogenea se osservata con la
giusta distanza critica. Infatti nell'ensoriana
babele di maschere, che di volta in volta occupano la scena o lo
sfondo dietro Jep o al suo
fianco, il pusillanime e la battona, il depresso e il vincente,
l'opportunista avvenente e il cinico etoromane
hanno tutti per un attimo lo stesso ghigno di ironico disprezzo e
divertita accondiscendenza,
di compiaciuta superiorità e sdegnata irriverenza che per tutta la
pellicola galleggia
sulla mobile plastica espressiva che Jep – quasi da navigato
caratterista – oppone al mondo
al solo scopo di (con)fondervisi sempre meglio, divenendo in esso
l'astratta ipostasi retorica di
una contestazione che trova il suo terreno fertile proprio in quel
contesto, sgraziato e deforme, contro
cui egli si scaglia ripetutamente, impotente e disilluso, feroce e
distratto. La
voluttà dissacrante di Jep si arena quindi ogni volta da capo nella
sorda eco di una risata fuori posto
– vorremmo dire quasi fuori scena – quale umbratile smorfia di
disappunto che prosegue sempre
oltre le continue ellissi del montaggio, le quali trasformano
indefettibilmente la pellicola in un
trasversale repertorio di situazioni paradigmaticamente affini tra di
loro e dunque sottilmente equivalenti.
Se
pertanto Sorrentino anche in questo film mette in campo una certa
diserzione della diegesi – per rimanere
fedele a quella poetica a cui poco sopra abbiamo accennato – lo fa
grazie al formidabile manierismo
del suo polimorfo registro registico, attraverso movimenti di camera
che a raggiera – si veda,
a titolo di esempio, il plesso delle sequenze iniziali – scoccano
da innumerevoli angoli visuali del
tutto estranei l'uno all'altro arrivando tuttavia a contrarre le
varie linee di sviluppo in un metamorfico
annodarsi di vicende e situazioni le quali, seppur semplicemente
giustapposte tra di loro,
formano una sorta di corpo unico composto però dai disparati
frammenti anatomici di vari cadaveri.
Questo
corpo è probabilmente quello Jep, vero e proprio cadavre
exquisi,
inconsapevole della propria
aberrante vita postuma, esuberante ed estenuata al tempo stesso, o
forse amaramente conscio
del suo dilatato sopravviversi, creatura compiutamente post-moderna
in quanto espressione di
una modernità anch'essa postuma e quindi collocata in un tempo
esteriore – o ulteriore – alla giusta
misura di una vicenda storica che risulta essersi ormai
definitivamente chiusa su se stessa e tuttavia
attratta unicamente dal proprio variopinto sfacelo, portata quindi a
perpetuarsi come una specie
di spettacolo allestito sul vuoto.
Alla
luce di ciò La
grande bellezza ci
sembra essere lo spoglio antologico di una deriva antropologica
che tocca e coinvolge indistintamente ogni aspetto dell'umano,
divenuto un volatile apparato
– pensiamo per un attimo al titolo dell'unico romanzo pubblicato da
Jep – di gesti e posture sedimentatesi
lungo il corso di una vita orientata alla ricerca di una identità
coerente e duratura e tuttavia
sempre sottoposta allo scacco di scoprirsi di tanto in tanto
piuttosto simile ad una specie di disabitato
glomerulo esistenziale tenuto insieme dalla ricercata eleganza di
modi e atteggiamenti i quali,
pur riuscendo a delineare la personalità di Jep all'insegna della
cultura e della raffinatezza, finiscono
per snaturarla, rivelandone il distorto fondo d'angoscia e
caricandola d'una goffaggine sinistramente
teatrale, come bene illustra, ad esempio, l'episodio del funerale.
Ciò che viene ad essere
tratteggiato in queste circostanze è una nodosa pantomima sempre squilibrata tra due
eccessi convergenti entrambi verso il medesimo esito amaro e
disarmante: sia che Jep voglia ostentare il
dissidio insanabile tra la parte recitata e la propria invertebrata
entità – smascherando così,
attraverso se stesso, tutti coloro che tendono a calcificarsi nella
prima – sia che egli miri a perseguire
con dolce accanimento il tentativo di far coincidere integralmente i
due versanti della sua
persona – rivelando in tal modo una ricerca di autenticità
definitivamente estinta in tutte le figure che si
assiepano intorno a lui – in ogni caso Jep riesce soltanto a
sottolineare la funesta insufficienza di
entrambi gli sforzi. Le varie vicende convocate da Sorrentino ad
intessere la trama de La grande
bellezza finiscono così per raccogliersi e ruotare follemente e
dolorosamente attorno alla misteriosa
elusività di questo centro assente, simili ad una disordinata
congerie di riflessi cospiranti tutti
nel punto cieco di uno specchio infranto.