La Biblioteca di Morel

Rivista di fenomenologia, estetica e filosofia delle immagini. ISSN 2384-9193

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sabato 22 febbraio 2014

Giunsi a me stesso dalla notte...

Giuseppe Crivella

Una fotografia di Carlo Bo
http://www.kasparhauser.net/Ateliers/Estetica/crivella-rebora.html
Pubblicato da Unknown alle 14:45
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Etichette: Critica letteraria, Filosofia, Letteratura del Novecento, Letteratura italiana, Poesia
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D'un sepolcrale parlar: Manganelli su Landolfi, 2

D'un sepolcrale parlar: Manganelli su Landolfi, 2
In Des mois Tommaso Landolfi riprende e svolge il tema strutturale di Rien va: il diario; intendendo con questo termine non già un regesto di eventi o emozioni quotidiane, ma anzi una invenzione retorica capace di smentire il tempo, di eludere quello svolgimento che sempre regge una trascrizione di accadimenti, per quanto fantastici e astratti..... Landolfi non è, non è mai stato lieto o felice fruitore del proprio lavoro di scrittore: ma, volta a volta, neghittoso e precipitoso. «Non ho forse mai avuto la pazienza (ed è forse mio merito) di tirare davvero a pulimento certe pagine, che nondimeno parvero a taluno particolarmente ben tornite... Ma un bel giorno, sentendomi prigioniero entro i miei quasi fisici risentimenti nei riguardi della pagina, un bel giorno deliberai di allentare il controllo sulla medesima, anzi di lasciarle addirittura le briglie sul collo, e giunsi (facendo come al solito un solato troppo lungi) ad una positiva sciattezza. Ebbene, lo credereste? Non per tanto cessai od ho cessato di essere definito «stilista»». In questo simulato e veritiero diario, Landolfi esperimenta una maniera preziosamente discontinua. Riluttante alla «ambigua lode» che comporta quella vanitosa targa di «stilista», sceglie di scrivere con ineguale, mutevole attenzione, così da lasciare continuamente sulla frase, sulla pagina, il duro segno di una estraneità, l' oltraggio di un ineliminabile disordine, un tocco di materia povera e sorda inserita in altra squisita e capziosa; e questa impetuosa goffaggine conferisce un risentito, inamabile sapore alla sua prosa, e insieme una violenta, anche stizzosa drammaticità. Questa invenzione stilistica, svolgendosi in spaziosa ed articolata metafora, rimanda al tema carissimo a Landolfi, che delicatamente inquina queste pagine: la impurità. Codesta impurità non è solo la sgarbata delizia del solecismo stilistico, ma anche il costante svelarsi di una maliziosa frattura negli oggetti, il manieristico sconnettersi delle strutture, i minuti indizi del disordine, la nobile putredine che insieme matura e consuma, le instabili crepe negli ostinati edifici dell' intelligenza e degli affetti. Donde la pertinenza, l' astuzia retorica dell' invenzione diaristica, che per la sua imprecisione di confini è la più idonea ad accogliere gli aurorali segni del sordido, la tenera vegetazione della decadenza. Il diario taglia i personaggi secondo la vena del naturale, intrinseco disonore. Segno emblematico di codesta impurità è la morte («Ed ho potuto pensare di ingannare la morte è dimenticarla, di eludere il vero scopo di queste pagine!», aveva scritto in Rien va ). La morte è un sintomo deforme, sconcio, insensato, una sporcizia nelle e tra le cose, una tabe fatale ed amica. A Landolfi è affatto estranea ogni fantasia di oggetti, di figure in qualche modo nobili e armoniose; non solo scopre, ma sceglie il disordine, la malattia, l' inesattezza. Nessuna sindacale complicità con l' umanità («in che scambietti si casca, degni della beatezza contemporanea, delle sue dolciastre concezioni sull' umanità sofferente e coalizzata contro il male ed anelante e amorosa»), disgusto di qualsivoglia discorso collettivo, un brusco scostare e scostarsi dai fratelli («O tracotanti assistenti sociali e simile impronta specie generata da un bestiale concetto di ignominiosa fratellanza... »). Gran parte di Des mois, come già Rien va, è il rapporto con i figli: una bimba di cinque-sei anni, un maschio tra il primo e il secondo compleanno. Sfidato da queste presenze, tra le più ricattatorie della socialità affettiva, lo scrittore è dilacerato tra una tragica sollecitudine e la coscienza della metafisica inanità di qualsiasi affettuoso intervento. La vergogna della paternità si mescola ad una smaniosa devozione, una tenera abiezione. Usciti dal «malevolo nulla» i figli sono una presenza miracolosa ed accusatrice: riscattano e insieme ribadiscono la intrinseca impurità degli oggetti. (G. Manganelli, già pubblicato su La Repubblica 09-07-2009)

D'un sepolcrale parlar: Manganelli su Landolfi, 1

D'un sepolcrale parlar: Manganelli su Landolfi, 1
Non ho mai conosciuto Tommaso Landolfi; ben pochi lo hanno conosciuto; oscuro ricordo di una sua fotografia - o mi sbaglio? I suoi libri recavano la bandella bianca, senza notizie sull' autore o imbonimenti per il lettore; e quello spazio era bianco, era stampato per volontà dell' autore. Quando vinse uno dei premi più mondani d' Italia, il Premio Strega, egli pose una condizione: che in nessun caso si sarebbe presentato a ritirare il premio; e fu l' editore ad andare. Fu uomo solitario, bizzarro, schivo non per timidezza, ma per una sorta di disdegno, di furore, di irrisione. Era nato a Pico, un borgo aspro, un poco banditesco, tra Roma e Napoli, ma poi era andato a vivere a Sanremo, dove poteva indulgere al suo grande e violento vizio, il gioco, che visse con ira e devozione dostoevskiane. Nella letteratura italiana di questo secoloè certo trai massimi, con Savinio, finalmente scoperto, con Delfini, ancora da scoprire. Non è mai stato scrittore popolare, ma il suo prestigio tra chi ama la letteratura è sempre stato assai alto. Ebbe elogi anche da chi gli era criticamente e intellettualmente estraneo. Ebbe la gloria di essere uno scrittore inutile. I suoi libri affascinano perché contengono attente contraddizioni, e la sua prosa magra, senza sorriso, ma in nessun caso «parlata», si porta appresso immagini di orrore, di sgomento, di decadenza, di spregio. Il nucleo del discorso di Landolfi - e lo si vede da questo splendido Mar delle Blatte - è il disgusto, l' escremento, qualcosa che partecipa, assurdamente, delle qualità del metallico e del cadaverico, del siliceo e del decomposto. Talora la sua prosa si inasprisce di parole rare, sgarbatamente precise, vecchie in modo che direi marinaresco, non dotto; sanno di catrame e non di dizionario; mi delizia, questa prosa, quando si finge casuale, distratta, giacché una delle squisitezze di Landolfi sta proprio in questo maneggiare sciatto, indifferente, il segno, la materia della decomposizione. Cambia il piano, il livello del racconto senza ricorrere ad un alcun artificio drammatico, quasi i suoi racconti procedessero per distrazione; e infatti mi accorgo d' aver toccato uno dei segreti della sua arte di narrare, di coltivare una «distrazione di precisione», di non guardare mai l' oggetto del racconto, ma di usarlo - e intendo la parola anche per i connotati un poco sudici, sudore e corpo - tangenzialmente, come se in verità egli dovesse parlare d' altro, qualcosa di non parlabile. (G. Manganelli. Già pubblicato su La Repubblica 09-07-2009)

L'opera d'arte nella sua storia. Ecco la lezione di Roberto Longhi

L'opera d'arte nella sua storia. Ecco la lezione di Roberto Longhi
Rimettere le Proposte per una critica d'arte (1950) di Roberto Longhi nelle mani degli italiani del 2014 è come dirigere un potente getto di acqua fresca in una pozza stantìa. E Portatori d'acqua è il nome di coloro che hanno avuto l'idea di farlo, offrenla do per sovrammercato una bella prefazione scritta ad hoc da Giorgio Agamben: un'idea coraggiosa e originale quanto lo è fondare oggi, e a Pesaro, un piccolo editore di qualità. In Longhi (Alba 1890-Firenze 1970) si trovano riunite tre componenti fondamentali della storia dell'arte, dopo di lui tuttavia quasi sempre scisse: la capacità di leggere la lingua formale del figurativo, e dunque di ordinare le opere attraverso lo strumento dell'attribuzione; la capacità di collegare la serie figurativa alle altre serie storiche (da quella letteraria a quelle politica, economica, religiosa e latamente sociale), ritessendo la storia dell'arte come una parte della storia della cultura; infine, la capacità di intervenire con forza, anticonformismo e lucidità nel dibattito pubblico sul destino del patrimonio artistico. Le Proposte sono il programma attorno al quale un Longhi ormai sessantenne e consacratissimo costruisce Paragone: per almeno vent'anni la principale rivista scientifica di storia dell'arte in Italia. È un "terzo Longhi", secondo la periodizzazione di Gianfranco Contini: dopo il primo «vociano, fiancheggiatore del futurismo, bigamo tra libertà illimitata nella critica militante e necessità espositive», e dopo il secondo «di stremata eleganza, culminante nel Piero della Francesca e in Officina ferrarese ». Il terzo Longhi, «sublimatore affabile del quotidiano, (...) ha press'a poco inizio coi Fatti di Masolino e di Masaccio » — la cui narrazione, nel corso universitario bolognese del 1940, folgora Pier Paolo Pasolini — , e coincide col Longhi degli interventi civili: testi non sorprendenti, da parte di chi aveva seguito a Torino «clandestinamente, fra i corsi di diritto, le lezioni sfaccettate in una logica adamantina di Luigi Einaudi », e aveva diviso l'appartamento studentesco con Ferruccio Parri. Del 1940è Arte figurativa, carne da cannone , che denuciava l'eterna emarginazione della storia dell'arte dalla scuola: «Quando i pochi storici dell'arte consci del proprio scopo si rivoltano nel letto dello scontento per la minima presa che i loro studi sembrano avere persino sul pubblico di più che mezzana cultura, e si arrovellano sui possibili rimedi, il pensiero ricorre subito alla posizione subalterna che l'insegnamento della storia dell'arte ha fin dalle scuole medie ». Nelle Proposte prende forma il riscatto: una storia dell'arte fedele ai valori intraduci- bili del figurativo, ma contemporaneamente ansiosa di connettersi ad una storia della cultura senza confini: «È dunque il senso dell'apertura di rapporto che dà necessità alla risposta critica. Risposta che non involge solo il nesso tra opera e opere, ma tra opera e mondo, socialità, economia, religione, politica e quant'altro occorra. .. Tutto perciò si può cercare nell'operapurché sia l'opera ad avvertirci che bisogna ancora trovarlo, perché ancora qualcosa manca al suo pieno intendimento ». QuindiLonghiabbatte il mito (oggi alla base dell'industria dell'intrattenimento a sfondo storico-artstico) del capolavoro assoluto, cioè sciolto da ogni relazione: «L'opera d'arte, dal vaso dell'artigiano greco alla Volta Sistina è sempre un capolavoro squisitamente "relativo". L'opera non sta mai sola, è sempre un rapporto». Intendere un'opera d'arte del passato vuol dunque dire far risorgere quella rete di rapporti, tutta intera: «Chi si cimenti nella restituzione del tempo di questa o quella opera d'arte, vicina o remota che sia, trova alla fine che... l'impegno assunto dal Manzoni nel 1822, "Io faccio quello che posso per penetrar- mi nello spirito del tempo che debbo scrivere, per vivere in esso", è buono anche per noi». Non si era poi molto lontani dallo storico di cui aveva scritto poco prima Marc Bloch: quello che «somiglia all'orco della fiaba. Egli sa che dove fiuta carne umana, là è la sua preda». Un'idea di storia totale che riprendeva la tradizione ottocentesca francese per cui «la storia è resurrezione» (Jules Michelet), «è pressappoco vedere gli uomini di una volta» (Hyppolite Taine). Solo una minoranza degli innumerevoli seguaci di Longhi hanno compreso questa evidente sintonia con la storia delle Annales , e forse nessuno è poi riuscito a tenere insieme questa densità e precisione di narrazione storica con l'acuminata, maniacale restituzione verbale dei valori figurativi. Ma la via additata dalle Proposte appare ancora la più bruciantemente attuale: per fare una storia dell'arte che metta i cittadini in grado di tornare a intendere la lingua figurativa, e dunque di esercitare la sovranità democratica anche attraverso l'attuazione dell'articolo 9 della Costituzione. (T. Montanari, La Repubblica 17-01-2015). P. P. Pasolini, Ritratto di Roberto Longhi (1975)

29. L'immagine iconoclasta: J-L Godard (2014) - profanare i dispositivi, 3

29. L'immagine iconoclasta: J-L Godard (2014) - profanare i dispositivi, 3
Embriologia d'un apocrifo d'autore [...]. La citazione strappa e trasfigura, impianta organi di polpo dentro elitre d'insetto, caria dall'interno il corpo della parola operandovi effrazioni a distanza, circuendone il senso a partire dal perimetro della frase dilaniata da una distrazione del contesto [...]. Il montaggio à la Godard comprime per dispersione, accentra l'eteroclito verso un fuoco prospettico fatto di rarefazioni e spostamenti, spodestamenti e rifrazioni, i quali trovano nel puntuale tracollo d'ogni coerenza l'ombra portata di un oggetto privo di volume [...]. Un progetto di paradossale pregnanza ontologica è ciò che persegue Godard: far corrispondere non alle parole, ma alle dinamiche transitive, intrusive e tensive, che i campi di parole intrattengono e instaurano, i vuoti di realtà lungo i quali sclerotici lembi di mondo si saldano e si annodano, lasciando così intendere che è proprio nelle sacche di resistenza all'effabilità piena esibita dalla lingua che l'esistente si conclama [...]. Prevale inoltre un utilizzo densamente scompaginante della sintassi, evocata qui come una smembrata rapsodia di focalizzazioni dissociate ma reattive l'una sull'altra; ne risulta una traslitterazione confusa di incroci testuali, che nella grumosa continuità dell'opera attuano una conflittuale drammaturgia dell'interrotto, il cui contuso compaginarsi rima in absentia con quanto Godard tralascia dal découpage: in fin dei conti già Kafka con il suo ultimo racconto - intitolato non a caso "der Bau" - ci aveva insegnato che è possibile dare vita a un sistema non solo erigendo cattedrali verso il cielo, ma anche scavando cunicoli nel sottosuolo del linguaggio e del pensiero... (J-M Noireaux, Le 120 giornate di cinema)

28. L'immagine iconoclasta: J-L Godard/ J-P Melville - Profanare i dispositivi, 2

28. L'immagine iconoclasta: J-L Godard/ J-P Melville - Profanare i dispositivi, 2
Infine l'ultima delle compensazioni al livellamento del linguaggio, la più importante e anche la più inattesa, è la comparsa della letteratura. Della letteratura in quanto tale, poiché a partire da Dante, da Omero, è pur sempre esistita nel mondo occidentale una forma di linguaggio che noialtri chiamiamo “letteratura”. Ma il termine è di fresca data, come recente è altresì nella nostra cultura l'isolamento di un linguaggio particolare la cui modalità propria è di essere “letterario”. Il fatto che agli inizi del XIX secolo, nel periodo in cui il linguaggio sprofondava nel suo spessore di oggetto, e si lasciava, da parte a parte, attraversare da un sapere, il linguaggio veniva ricostituito altrove, in forma indipendente, di difficile accesso, ripiegata su se stessa e interamente riferita all'atto puro di scrivere. La letteratura è la contestazione della filologia (di cui pure è la figura gemella): riconduce il linguaggio della grammatica al potere spoglio di parlare, e ivi incontra l'essere selvaggio e imperioso delle parole. Dalla rivolta romantica contro un discorso immobilizzato nella sua cerimonia, fino alla scoperta mallarmeana della parola nel suo potere impotente, appare chiaramente quale fu, nel XIX secolo, la funzione della letteratura nei confronti del modo di essere moderno del linguaggio. Sullo sfondo di tale gioco essenziale, il resto è effetto: la letteratura si distingue sempre più dal discorso di idee, e si chiude in una intransitività radicale: si stacca da tutti i valori che potevano nell'età classica farla circolare (il gusto, il piacere, il naturale, il vero), e fa nascere nel proprio spazio tutto ciò che può garantirne il diniego ludico (lo scandaloso, il brutto, l'impossibile): rompe con ogni definizione di “generi” in quanto forme accordate a un ordine di rappresentazione e diviene pura e semplice manifestazione di un linguaggio che non ha per legge che di affermare, contro tutti gli altri discorsi, la propria esistenza scoscesa; non ha più allora che da incurvarsi in un perpetuo ritorno su di sé, come se il suo discorso non potesse avere per contenuto che di dire la propria forma: si volge a sé in quanto soggettività scrivente, o cerca di recuperare, nel moto che la fa nascere, l'essenza d'ogni letteratura; e così i suoi fili convergono verso la punta più tenue – unica, istantanea, eppure assolutamente universale – verso il semplice atto di scrivere. Nel momento in cui il linguaggio, in quanto parola diffusa, diviene oggetto di conoscenza, eccolo riapparire sotto una modalità rigorosamente opposta: silenziosa, cauta deposizione della parola sul candore di una carta, ove la parola non può avere né sonorità né interlocutore, ove non ha nient'altro da dire che se stessa, nient'altro da fare che scintillare nel bagliore del suo essere... (M. Foucault, Le parole e le cose)

27. L'immagine iconoclasta: J-L Godard (2014) - Profanare i dispositivi, 1

27. L'immagine iconoclasta: J-L Godard (2014) - Profanare i dispositivi, 1
Vi sono parole come arnie nere di nomina nuda che nascondono la contusa coltre delle cose, ritratte nel rarefatto solitario del linguaggio. Bradisismi sistemici tra le schiume dell'amigdala si smagliano in un affiorare di rovine verbali illuminate dalla lucida decomposizione di un'aurora ormai impossibile. Nell'attonito auspicio che non vi sia termine alla notte, un alveare di immagini durante un lapsus del tempo svela la dura solitudine dell'universale, mentre ogni oggetto, pur colto in un livido eccesso di chiarezza, punterà inesorabilmente verso il crepuscolo del visibile, là dove metafore fiottano come code di comete. Oscillando tra la rayonnante profondeur de l'Idée e le sombre réveil des surfaces, la fredda ecpirosi dei codici smaschera e invera l'anaparastasi cicatriziale di una semiosi sedimentatasi nell'isolata faglia in cui la mente si trova ad essere declinata come un'astratta maceria. (J-M Noireaux, Le 120 giornate di cinema)

Quell'alfabeto che incantò anche Queneau

Quell'alfabeto che incantò anche Queneau
Il vezzo di considerare l'arte campo dell'ineffabile, dell'emozione soggettiva, dell'abbandono lirico, ha impedito di notare un'operazione unica nel Novecento. Joan Miró ha inventato una lingua per figure. Non una scrittura privata né un repertorio di marche stilistiche, ma un linguaggio per tutti, visibile e dicibile, che recupera le qualità sensibili e affettive del rapporto con le cose. Riscoprire "l'infanzia del mondo" – il modo cognitivo di sintetizzare e simbolizzare – e retroagire sulle parole, che, usurate, hanno perso energia figurativa e potere di significare. Il rigenerarsi dell'uomo passa attraverso questa invenzione. Inventare alla maniera delle origini: manipolare, sperimentare, cimentarsi con concetti e strumenti. Raymond Queneau ha chiamato i segni di Miró "miroglifici". L'alfabeto è tutt'altro che misterioso. Si compone di figure in metamorfosi, secondo un ciclo non biografico, ma biologico: nascita, crescita, assestamento, destino. Cambiano nel tempo, come gli esseri viventi, mantenendo inalterati certi tratti. Queneau aveva frequentato Miró a Varengeville, in Normandia, dove entrambi si erano rifugiati, nel 1939, per l'avanzata delle truppe tedesche. Ricorda una frase dell'artista, mentre alcuni amici passavano nelle mani della Gestapo: «il coraggio consiste nel restarsene a casa, accanto alla natura che non tiene conto dei nostri disastri». Se gli altri surrealisti partivano dai resti dei materiali invecchiati e l'insieme di elementi singolarmente realistici negava il realismo in generale (Leroi-Gourhan), Miró apre una strada vergine. "Poeta preistorico" (Queneau), ma anche oulipista, ripensa il nostro dare senso ai segni. Prende a modello gli ecosistemi naturali. La ricerca di Miró comincia dalla terra. La casa di famiglia di Mont-roig è il soggetto di tre varianti successive – La fattoria ( 1921-1922), acquistata da Ernest Hemingway, Terra arata ( 1923-1924) e Paesaggio catalano ( Il cacciatore) ( 1923-1924) – che avviano un processo di geometrizzazione e spoliazione. Un iter analogo agli studi di Mondrian sull'albero, con la differenza che qui l'analisi della forma espressiva provoca un cambiamento sul piano del contenuto. Dal 1940, tramite il disegno, ha inizio un'attività di vaglio e riordino: alcune figure vengono scartate, altre si impongono in modo stabile. Emergono una grammatica del miró – norme di funzionamento – una sintassi – regole di combinazione – e una scrittura, tipografia e calligrafia che insonorizzano il lettering: volume, timbro, ritmo. I miroglifici sono configurazioni primigenie tese fra la terra e il cielo. Tredici in tutto, sette organiche – l'occhio, il cuore, il piede, la mano, il seno, l'organo genitale maschile, l'organo genitale femminile – e quattro cosmiche – il sole, la luna, l'uccello e la stella. Termine "neutro", né organico né cosmico, è la scala dell'evasione, che collega i due poli; termine "complesso", organico e cosmico, è la spirale. Un foglio preparatorio dello spettacolo L'Oiseau ( 1968) fornisce lo schema: un carosello dove ognuno di questi segni è accompagnato dal suo nome e che però, in se, non spiega nulla. Occorre guardare le opere. La serie delle Costellazioni, con astri-radici di patate, è un atlante di combinatorie di elementi. Dal 1937 gli autoritratti sono "panorami" di miroglifici. Negli anni Settanta il segno diventa gesto e la pittura simula la coltivazione della terra. Duchamp era sicuro che Miró esprimesse una "cosmogonia estranea alla pura astrazione". Per il suo compleanno, nel 1947, gli regala una cravatta con scena di paesaggio. Dono di scambio. La cravatta, "forma-principio" della Macinatrice di cioccolato (1913) e del Grande Vetro (1915-23), è un glifo duchampiano. Noi siamo pronti a imparare il miró? (T. Migliore, La Repubblica 26-11-2014) J. Mirò, Bleu 1

Blumenberg: prolegomeni per ogni metaforologia futura...

Il fatto che il moto circolare sia il moto «naturale» aveva in Aristotele ancora un intero sottofondo di giustificazione metaforico-razionale; per Nietzsche vale come principio ultimo, che non ha da giustificarsi: «razionalità o irrazionalità non sono affatto predicati per l'universo», il cerchio è una «necessità irragionevole, senza alcun riguardo formale, etico, estetico». La metafora assoluta, abbiamo visto, irrompe in un vuoto, si proietta sulla tabula rasa del teoreticamente inadempibile: qui essa ha preso il posto del volere assoluto, ormai senza vita. La metafisica ci è apparsa spesso come metaforica presa alla lettera; la dissoluzione della metafisica richiama la metaforica a riprendere il suo posto...

(H. Blumenberg, Paradigmi per una metaforologia)

A cura di M. G. Crivella

Elias Canetti: L'inconcepibile e l'animale...

Elias Canetti: L'inconcepibile e l'animale...
Un' accusa che non conosce fine suscita odio. Un' accusa permanente è un' assurdità. Persino la faida aveva un tempo senso e tuttavia, per il nostro modo di sentire, non ne ha alcuno. Quanto più mostruosa è una colpa, tanto meno la si può far durare. Bisogna allora dimenticare il passato? Bisogna che esso continui a esistere come l' Inconcepibile, non come colpa. Si può distinguere l' inconcepibile dalla colpa? L' inconcepibile è anonimo. Non riguarda solo un popolo. E' qualcosa di inumano che minaccia tutti e può irrompere giungendo da qualsiasi lato. Insieme lo incalziamo come un mostro. Poniti come vuoi, mite e clemente, al centro di te rimane il disprezzo, e hai davvero da dire qualcosa solo allorché qualcosa disprezzi. Ecco ciò su cui si basa l' ortodossia di qualsiasi religione. E' forse questo a mantenere in vita le religioni? Si scrive, per essere diversi. Chi imbroglia scrivendo rimane ciò che comunque è. Io ero pieno di fiducia, lei piena di segreti. Non era certo tutto importante quello che lei mi teneva segreto. Non era certo tutto importante quello che io le confidavo. Ma importante lo diventava proprio nell' atto del confidare e in quello del tenere segreto. Ci si ricorda meglio delle cose più lontane. Ciò che è vicino è immerso nella luce del crepuscolo [...]. E' alle forme degli animali, sempre diversi, che va il nostro desiderio. A tutti quegli animali che totem non sono diventati. E ormai non possono più diventarlo. Il tempo degli animali sacralizzati è passato. Ormai possiamo solo cercare la loro salvaguardia. Questo è tutto, è poco, e nondimeno è il massimo. E' difficile non cader preda di teorie che aborriscono la vita e le negano qualsiasi valore. Dalla somma minaccia che incombeva sul futuro, di decennio in decennio sempre più pericolosa, si è finiti in un presente di indicibile abiezione. In tarda età trovarsi davanti, potenziato, ciò che quant' altro mai aborrivamo. Sempre si è intervenuti in favore della vita, doveva farsi vieppiù lunga, doveva attingere l' eternità. Si maledicevano coloro che alla vita volevano sottrarsi. Si disprezzavano coloro che decantavano vuoti paradisi. Si stava ad ascoltare, si respirava: non era mai abbastanza. Adesso il respiro affannoso è appestato dalla prossimità del crimine. Fu l' infanzia, l' Europa? Andavi alle elementari, quando risuonò il grido: Sarajevo! Oggi, ottant' anni dopo: Sarajevo! - L' uomo, un ciocco di legno che getta se stesso nel fuoco. Fermalo! Trailo fuori! Chi mai potrà sapere tutto di lui? Forse vuol essere tratto fuori. Forse brucia per l' attesa. Sta arrivando un' età, forse l' ultima, in cui la lettura non significa più nulla. Non si collega più all' esistente, scivola via, non sedimenta più, non lascia tracce. Forse risveglia ancora desideri di altre cose che andrebbero lette, ma sono desideri vaghi che svaniscono prima di potersi articolare. Come giudicare questo tipo di lettura, così diverso da tutto quello che prima chiamavamo leggere? Forse è una sorta di esercizio all' oblio delle parole, il loro palpito prima del silenzio... (E. Canetti, Un regno di matite. Appunti 1992-1993) Inserimento a cura di M. G. Crivella

Nancy: Addio a Jacques Derrida. A dieci anni dalla morte.

Nancy: Addio a Jacques Derrida. A dieci anni dalla morte.
Salut! Comment ne pas te dire "salut!" au moment où tu t'en vas? Comment ne pas répondre à ce "salut!" que tu nous adressais, un "salut sans salvation, un imprésentable salut" comme tu disais? Comment ne pas le faire, et que ferions-nous d'autre? Comme toujours, le temps du deuil n'est pas celui de l'analyse ni de la discussion. Pour autant, il n'est pas inévitable qu'il soit celui des hommages gominés. Il peut et il doit être avec toi le temps du salut: salut, adieu! Tu nous quittes, tu nous laisses devant l'obscurité dans laquelle tu disparais. Mais: salut à l'obscurité! Salut à cet effacement des figures et des schémas. Salut aussi aux aveugles que nous devenons, et dont tu faisais un thème de prédilection: salut à la vision qui ne tient pas aux formes, aux idées, mais qui se laisse toucher par les forces. Tu t'exerçais à être aveugle pour mieux saluer cette clarté que seule l'obscurité possède: celle qui est hors de vue et qui enveloppe le secret. Non pas un secret dissimulé, mais l'évident, le manifeste secret de l'être, de la vie/la mort. Salut donc au secret que tu gardes sauf. Et salut à toi: salve, sois sauf! Sois sauf dans cette impossibilité de santé ou de maladie où tu es entré. Sois sauf non de la mort mais en elle, ou bien si tu permets, s'il est permis, sois sauf comme la mort. Immortel comme elle, ayant en elle ta demeure depuis ta naissance. Salut! Que ce salut te soit bénédiction (cela aussi tu nous l'as dit). "Bien dire" et "dire le bien": bien dire le bien le bien ou l'impossible, l'imprésentable qui se dérobe à toute présence et qui tient tout entier dans un geste, une bienveillance, la main levée ou posée sur l'épaule ou sur le front, un accueil, un adieu qui se dit "salut !". Salut à toi, Jacques, et salut aussi, au plus près, à Marguerite, à Pierre et à Jean. (J-L Nancy, Libération 11 Octobre 2004)

Foucault: Sulla scrittura. Estratto dall'ultima intervista.

Foucault: Sulla scrittura. Estratto dall'ultima intervista.
La question de l’écriture de soi a été absolument centrale, très importante dans la formation de soi. Laissons de côté Socrate, puisqu’on ne le connaît qu’à travers Platon, et prenons Platon. Le moins que l’on puisse dire est que Platon n’a pas beaucoup cultivé la pratique de soi comme pratique écrite, comme pratique de mémoire, comme pratique de rédaction de soi à partir de ses souvenirs. En revanche, il a considérablement écrit sur un certain nombre de problèmes politiques, métaphysiques, et ces textes témoignent de la présence dans le débat platonicien du rapport à soi […]. En revanche, à partir du Ier siècle après Jésus-Christ, vous voyez des écrits qui sont très nombreux et qui semblent tous obéir à un certain modèle de notre écriture et qui font de l’écriture un mode fondamental de rapport à soi. On a des recommandations, des écrits, d’un certain nombre d’auteurs, sur des conseils et avis qu’ils donnaient à leurs élèves, et il semble bien qu’on apprenait aux jeunes gens à se tenir comme il fallait devant une leçon qui était donnée par les grands chefs. Ensuite, et ensuite seulement, on leur apprenait à formuler leurs questions, puis on leur apprenait ensuite à donner leur opinion, puis on leur apprenait ensuite à formuler ces opinions en termes de leçons et, enfin, de les formuler sous forme didactique. On en a assez bien la preuve à travers les différents textes que l’on peut avoir de Sénèque, d’Epictète et Marc Aurèle. Donc je ne serais pas tout à fait d’avis de dire que la morale antique a été une morale de l’attention à soi tout au long de son histoire, elle l’est devenue à un certain moment. Le christianisme a introduit à ce moment-là des perversions ou des modifications assez considérables, lorsqu’il a organisé des fonctions pénitentielles extrêmement larges qui impliquaient que l’on tienne compte de soi et que l’on se raconte soi-même à l’autre, sans qu’il y ait d’écrits. […] Le journal chrétien du XVIe siècle n’était absolument pas le journal chrétien que l’on pouvait trouver au IVe ou au Ve siècle. Il ne répondait pas à la même question. Il ne s’agissait pas de savoir les mêmes choses, et il ne cherchait pas à traiter le même type de problème...

Lorenzo Lippi e gli altri...

Lorenzo Lippi e gli altri...
Ma davvero una mostra che rinuncia a fregiarsi di qualche capolavoro (vero o millantato) dei «soliti noti», di cui si proclama fin dal titolo la presenza per «fare cassetta», è destinata all'insuccesso? Io non lo credo, e soprattutto non credo che chi decide un calendario espositivo di una struttura pubblica debba avere come obiettivo primario di scegliere «titoli» che mascherano dietro nomi clamorosi l'assenza di un progetto critico, ma garantiscono a priori lunghe file al botteghino di adoratori del risaputo. L'esposizione che si tiene in questi giorni agli Uffizi "Puro, semplice e naturale nell'arte a Firenze tra Cinque e Seicento", a cura di Alessandra Giannotti e Claudio Pizzorusso, fino al 2 novembre si colloca al polo opposto delle mostre «ostendi-feticcio». Esibisce, suddivise in nove sezioni tematiche, una settantina di opere. Non mancano esempi di artisti di primissimo rango – Andrea del Sarto, Fra Bartolomeo, Andrea Sansovino, Andrea della Robbia, Pontormo, Bronzino –, ma il grosso delle opere, anche se spesso di singolare bellezza, è di autori il cui nome è assente o compare solo di sfuggita nella manualistica corrente: Franciabigio, Giovanni Antonio Sogliani, Pietro Torrigiani, Domenico Poggini, Santi di Tito, Valerio Cioli, Andrea Commodi, l' Empoli, Ottavio Vannini, Filippo Tarchiani, Lorenzo Lippi. Ma quel che veramente conta è che questa rassegna è frutto di una riflessione critica molto ben ponderata e tutt'altro che risaputa. Ed è proprio per questo suo carattere innovativo, impressogli dai due ideatori-curatori, che la raccomando vivamente a tutti coloro – e io penso che non siano pochi – che considerano l'«andar per mostre» un'avventura intellettuale stimolante e non un rito consolatorio da compiere per poter dire «io c'ero!». Dal saggio in catalogo di Pizzorusso si apprende che i tre aggettivi da cui è stato ricavato il titolo della mostra derivano da un trattato morale del gesuita Daniello Bartoli, La Povertà contenta , pubblicato nel 1650, in cui essi compaiono per designare la mensa del povero, assimilata a una «Vergine bella solamente col suo puro, semplice e naturale », contrapposta alla sfarzosa e artefatta tavola dei ricchi. Affermazione seguita da due eloquenti esempi: la tavola del ricco, colma di «uccelli pieni di pesci, e pesci pieni d'uccelli », cucinati in modo che «i sapori dell'uno con quelli dell'altro si stemprino, e ne facciano di due uno solo, che non sia né l'uno né l'altro»; quella del povero, invece, a cui siedono non solo «la sanità, l'allegrezza, et anco il gusto innocente della natura, ma la parsimonia, l'honestà, la modestia e l'astinenza ». Il testo di Bartoli era ben noto nei cenacoli fiorentini frequentati da Lorenzo Lippi, uno dei pittori più rappresentativi del filone artistico illustrato in questa rassegna, ma è soprattutto la contrapposizione tra la «cucina manierista», grottesca e artefatta, e quella schietta, sobria e naturale della "povertà contenta", a chiarire in modo esemplare il leitmotiv della mostra, che può essere così sintetizzato: i curatori delineano un filone artistico toscano che si dipana dal tardo Quattrocento al Seicento, esprimendo un'alternativa, sia alla Bella Maniera d'impronta michelangiolesca e tardo-raffaellesca, esemplarmente incarnata da Vasari, sia, nel secolo successivo, al Barocco trionfante, introdotto a Firenze da Pietro da Cortona. Uno stile municipale, orgogliosamente autarchico, improntato all'esaltazione della fiorentinità, intesa come un linguaggio figurativo schietto e sapido, variato ma non astruso, semplice e comunicativo, immune dall'enfasi retorica e nutrito di aderenza al «naturale » e di un'assidua pratica del disegno. La mostra si apre con una prima sezione, in cui si accostano le Annunciazioni di Andrea e Marco della Robbia, Andrea del Sarto, Santi di Tito e Jacopo da Empoli, che intende riassumere in un colpo d'occhio i tratti comuni ad alcuni dei più rappresentativi esponenti di questa tendenza, distribuiti nell'arco di due secoli, dal secondo '400 alla prima metà del '600. Andrea del Sarto, il «pittore senza errori» e insuperabile disegnatore, è il capofila indiscusso di questa «fiorentinità»: ridimensionato fin quasi a precipitarlo nell'oblio, dopo la morte, per far luogo al dispiegarsi del linguaggio sovraregionale della Maniera, ma riscoperto e esaltato fino a divenire oggetto di culto in clima di Controriforma, da Santi di Tito, massimo capofila a sua volta di un ritorno alla sana e castigata «fiorentinità », che detterà la linea all'Empoli, a Lippi e a tanti altri artisti seicenteschi. La mostra va gustata con occhio attento e partecipe, sala dopo sala, seguendo il filo d'Arianna di due temi che hanno un rilievo particolare: quello della riforma religiosa e quello della lingua. La riforma religiosa lega l'arte devota dei della Robbia, di Lorenzo di Credi e di Fra Bartolomeo, documentatamente coinvolti nella predicazione del Savonarola, alla religiosità controriformata a cavallo tra Cinque e Seicento. Quanto alla questione della lingua, di cui sono folgoranti testimonianze in mostra le stupefacenti «palette» dipinte da Lorenzo Lippi per alcuni membri dell'Accademia della Crusca, in essa è condensato il nocciolo della polemica antimanierista dei «Puristi»: la difesa di una «favella naturale», il parlato fiorentino, magari insaporito da qualche nordicismo, ma sostanzialmente schietto, semplice, sintatticamente chiaro e ordinato, senza fronzoli, contro la lingua programmaticamente sovranazionale dei detestati «vasariani» (A. Pinelli, La Repubblica 24-08-2014) Lorenzo Lippi, Donna con maschera (dett)

Jaspers e il linguaggio I

Jaspers e il linguaggio I
In ogni passo della nostra coscienza non si dà che un unico lampo di attenzione nel quale qualcosa viene appreso. Noi procediamo di rappresentazione in rappresentazione, di pensiero in pensiero, torniamo indietro, cerchiamo similitudini, relazioni. Nella loro sequenza questi atti edificano quel che più tardi sarà possibile pensare in un unico atto grazie alla disponibilità di ciò che è stato prima pensato. Quel che l'uomo non riesce, prima o poi, ad abbracciare in un unico atto, non esiste per lui come oggetto. Nella sequenza, dunque, quel singolo atto, così come è statp edificato, può essere nuovamente dispiegato e ulteriormente chiarito. Vi sono atti oscuri, dalla pienezza infinita, che sono tuttavia lungi dal costituire un sapere senza residui asserito in giudizi. (K. Jaspers, Il linguaggio)

L'arte sedotta dal corpo delle donne

L'arte sedotta dal corpo delle donne
Attingendo agli ampi depositi (spesso inutilizzati) della Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma, ma soprattutto alla ricca donazione fatta da Arturo Schwarz, Barbara Tomassi imbastisce una bella mostra che — alternando autori italiani anche meno noti e i maestri dell'avanguardia — ripercorre il motivo della seduzione legata al corpo della donna, in un percorso che dalle "belle apparenze", passando attraverso la deformazione e l'estremizzazione avanguardistica, ritorna alle tranquillizzanti fattezze di innocua musa addormentata ( La forma della seduzione. Il corpo femminile nell'arte del ‘ 9-00 , aperta fino al 5 ottobre, catalogo Electa, pagg. 148, euro 29). Si comincia col corpo come suscitatore di fascino, ben rappresentato dal Nudo sdraiato di Amedeo Modigliani che dà avvio alla mostra, o dalle dirompenti forme neoclassiche di una bagnante di Francesco Trombadori del 1925, o dalle pose ancora tradizionali delle solarizzazioni di Man Ray. Nella seconda sala il corpo femminile appare già deturpato, a indicarne l'usura, come nella pura carnalità delle Ragazze a Palermo di Renato Guttuso, o scomposto, come la Cassandra di Enrico Prampolini, moderna odalisca distesa su un'amaca, forse con sigaro e occhiali da sole. Colpisce tra le opere esposte il gioco di sguardi quasi assenti delle Bambine di Dilvo Lotti e un'acquaforte di Victor Brauner, dove il viso femminile è una gabbia che imprigiona due occhi stupefatti e la bocca marcata, e un espressionistico San Sebastiano ( 1912) dai seni femminei, sotto lo sguardo lascivo di un calvo borghese con monocolo e aureola di frecce, quasi anticipazione di George Grosz. Nello spazio dominato dal feticismo surrealista, un Oggetto mobile di Max Ernst, una Venere neoclassica di Man Ray imprigionata in una rete, un Guanto di donna in bronzo, object trouvé di cui André Breton parlava in Nadja, ma soprattutto un collage di Karel Teige del 1941 (con dedica all'amico J. Heisler): qui il volto della donna, sormontato da uno scalpo femminile, è costituito da piccoli ceppi allineati, quasi un ricordo dei versi di Breton: «la mia donna dagli occhi di bosco sempre sotto l'ascia». Sul crinale tra le due sezioni, e prima delle sue "bambole smontabili", due eleganti variazioni di Hans Bellmer sul corpo femminile (o su quel che ne resta): calze a fasce e scarpe coi tacchi, gioco di rotazioni che lasciano intravedere i particolari scabrosi del corpo desiderato, ma anche la struttura ossea di un braccio, come in una sensualissima radiografia. Nella penultima sezione primeggia un clima minaccioso. In un olio del 1962, Maurice Henry muta il corpo della donna nel tavolo anatomico su cui (tardo omaggio a Lautréamont) infierisce una macchina da cucire con un ombrello al posto dell'ago, mentre in un cadavre exquis del 1929 (a firma Breton, Valentine Hugo e la coppia Nusch e Paul Éluard) la donna, dalle inquietanti unghie ferine, è associata a un levriero. Non diversamente, George Hugnet incolla accanto a una donna distesa in spiaggia una tigre accovacciata, mentre in un collage di Joseph Cornell un'ottocentesca venditrice di frutta mostra al posto del viso una testa di pantera. Non può che rilassare, allora, nell'ultima sala della mostra, la fascinazione assopita del Reclining nude (1928) di John Armstrong dalle smussate forme esorbitanti o la Diana addormentata nel bosco di Giorgio De Chirico. (G. Dierna, La Repubblica 10-08-2014) Un collage di Karel Teige

Weltende, secondo Oswald Spengler...

Weltende, secondo Oswald Spengler...
Il paesaggio eroico nello stile di Lorrain non è pensabile senza rovine, e il parco inglese coi suoi effetti atmosferici [...] incorporò il motivo della rovina artificiale che va ad approfondire in un senso storico l'immagine del paesaggio. Mai fu escogitato qualcosa di più bizzarro. La civiltà egiziana restaurò gli edifici dei tempi primi, ma mai avrebbe osato costruire delle rovine come simboli del passato. Del resto noi, in fondo, non amiamo tanto la statua antica, quanto il troncone antico. Il quale ha un suo destino, qualcosa che porta lontano lo spirito, lo circonda - e all'occhio piace darsi a riempire con il ritmo di linee invisibili lo spazio vuoto delle membra che mancano. Quando questo vuoto fosse eliminato da un buon restauro, il fascino misterioso delle infinite possibilità sarebbe finito. Oso affermare che noi possiamo sentir vicini i resti della antica scultura solo grazie a questa trasposizione musicale. Il bronzo verdastro, il marmo annerito, le membra mutile di una statua aboliscono per il nostro occhio interno i limiti di luogo e di tempo. (O. Spengler, Il tramonto dell'Occidente) Particolare da un'opera di Monsù Desiderio.

Max Klinger, Der Philosoph (1895)

Max Klinger, Der Philosoph (1895)
La persona di Benjamin fu fin dall'inizio a tal punto veicolo dell'opera, la sua felicità risiedeva tanto nel suo spirito che tutto quello che si soglia intendere per immediatezza della vita veniva fratto. Senza che sia stato ascetico o che abbia destato quest'impressione nel suo modo di presentarsi, gli si addiceva quasi un'acorporeità. Era padrone del suo io come pochi ma sembrava estraniato dalla propria fisicità. Qui è forse una delle radici dell'intenzione della sua filosofia, procacciare con mezzi razionali il quanto di esperienza che balugina nella schizofrenia. Al modo in cui il suo pensiero costituisce l'antitesi al concetto esistenzialistico di persona, empiricamente egli, nonostante l'estrema individuazione, non sembra persona ma luogo del movimento del contenuto che attraverso lui incalzava per arrivare alla lingua. (Th. W. Adorno, Note sulla letteratura) A cura di M.G. Crivella

26. L'immagine iconoclasta: Dario Argento (1978)

26. L'immagine iconoclasta: Dario Argento (1978)
Se l'alibi del fondo è una lacerazione nel sudario dello spazio, l'astrazione vale come il ritaglio di un'area che modula una linea senza catturare alcuna forma [...]. Assunta quale nodo di metamorfosi nella presenza, la superficie è qui una negazione di figura diventata espansione netta e senza dissimulazioni, affondata nella densità rugosa di una percezione, ove lo slittamento tra impulso morfologico e azzeramento strutturale s'è già rappreso lungo il passaggio al limite di un'immagine, in cui viene a manifestazione l'impossibilità stessa di rappresentare ciò che la mette in forma... (J-M Noireaux, Le 120 giornate di cinema)

Jean Arp e Osvaldo Licini, un dialogo a distanza inseguendo la bellezza

Jean Arp e Osvaldo Licini, un dialogo a distanza inseguendo la bellezza
Dopo il duetto tra Klee e Melotti, il Museo d'arte di Lugano regala ancora ai visitatori una mostra gioiello, aperta fino al 20 luglio, facendo incontrare Jean Arp e Osvaldo Licini . Il dialogo poetico e incantato tra le loro forme è, questa volta, accompagnato da altre ipotesi di conversazioni come quelle con Modigliani, Matisse, Klee, Kandinsky, Sophie Tauber, moglie di Arp e artista molto amata da Licini. A guidare la scelta delle opere è stato l'occhio dei due curatori Guido Comis e Bettina Della Casa, ma tutta l'operazione nasce dalla loro constatazione delle affinità elettive, squisitamente storico-artistiche, esistenti tra i due. Che probabilmente non si sono mai incontrati, ma entrambi hanno frequentato Parigi negli anni Venti. Licini, classe 1894, arrivava dal suo paese nelle Marche, Monte Vidon Corrado, dove tornerà a vivere in un voluto, ostinato e sereno isolamento. Arp, nato a Strasburgo nel 1886, in quel periodo aveva già contribuito a Zurigo alla nascita di Dada. Parteciperà poi al Surrealismo e ai più importanti movimenti collegati all'astrazione. Due mondi questi apparentemente in contrasto, eppure capaci di trovare nel percorso dell'artista franco- tedesco una perfetta armonia. Tanto Licini è una voce solitaria, tanto Arp ha alimentato intense attività corali. L'italiano, aggiornato e attento, conosceva le opere del suo più anziano collega. La dimensione internazionale della sua pittura è sottolineata, ribadita e in parte anche riscoperta da questa esposizione, che lo restituisce a un contesto più ampio. Ciò che tiene insieme l'universo felicemente metamorfico di Arp e quello un po' magico di Licini è l'esigenza di ritrovare il carattere "elementare", primordiale, originario del fare artistico. Questo li porta a semplificare strutture e profili che diventano testimoni di una cosmologia segreta e misteriosa. «Un'opera che non sia radicata nel mito, nella poesia, che non partecipa della profondità dell'essenza dell'universo, è solo un fantasma», sostiene Arp. Gli fa eco Licini: «La pittura è l'arte dei colori e delle forme libere... ed è anche un atto di volontà e di creazione... Un'arte irrazionale, con predominio di fantasia e immaginazione, cioè poesia». E Arp incalza, sostenendo che l'arte «non riproduce ma produce, come una pianta un frutto». Gli esordi sono nel segno della figura per entrambi. Ecco due autoritratti, uno accanto all'altro. Per Arp si tratta di una delle poche opere giovanili superstiti. La maggior parte le ha distrutte lui stesso. Licini, negli anni Venti, guarda corpi femminili e paesaggi, come fossero la stessa cosa. C'è un andamento sinuoso che impagina colline, fianchi e seni, pronto a riapparire nelle ultime opere del pittore, quelle in cui «vola verso lo sconfinato e l'immaginario», abitate tra la terra e il cielo da strani personaggi Amalassunte e Angeli ribelli . E c'è l'orizzonte, elemento costante della poetica liciniana anche nel suo periodo astratto, a partire dagli anni Trenta, quando sulla tela si affacciano triangoli, linee, quadrati e tutta quella geometria destinata, nelle sue intenzioni, a «diventare sentimento ». E anche in questo Arp e Licini si assomigliano. Basti guardare come interpretano lo spazio e la materia. La tessitura di Licini è vibrante, il suo mondo è in bilico: in una composizione rigorosa di grigi, rossi, neri e bianchi ecco un angolo che si spezza. Ed è subito movimento, scarto, stupore. Anche il mondo di Arp non è dato una volta per tutte: tutto muta, i suoi quadrati hanno un ritmo inaspettato (efficace, per capirlo, il confronto con la Tauber), la carta su cui traccia segni è sgualcita, il numero zero diventa un ombelico, poi un otto, e ancora un piccolo miracolo germinativo che partorisce bottiglie, paia di baffi, cappelli, torsi. Entrambi lasciano che le loro forme volteggino senza una meta sulle loro composizioni, sempre attraversate da una spiritualità lieve che non esclude il gioco, l'ironia. E poi ci sono numeri e parole che navigano creando enigmi, rebus dalle infinite soluzioni. «La bellezza sfuggirà sempre ai nostri calcoli», diceva Licini. E di fronte alla Scultura mediterranea di Arp, un marmo del 1941, capisci che aveva ragione. (L. Mattarella, La Repubblica 29-06-2014) A cura di M. G. Crivella

Quei luoghi che conosciamo senza aver visto...

Quei luoghi che conosciamo senza aver visto...
Gli artisti ritraggono la città. Per una peculiare caratteristica dei luoghi abitati questi finiscono spesso per somigliare ai quadri, alle fotografie, alle installazioni che se ne fanno. Le città assorbono e riflettono con una velocità impressionante le visioni, anche le più assurde che gli artisti ne elaborano. È per questo che un europeo che si reca per la prima volta a New York è come se l'avesse già vista perché l'ha sperimentata in tutto l'armamentario artistico del Novecento. Il nostro immaginario urbano nasce colonizzato dalla storia delle immagini. Walter Benjamin sosteneva che la storia ormai noi la sperimentiamo solo come storia d'immagini. Vediamo a Parigi il riflesso delle visioni di Utrillo e a Mosca i tableaux del realismo socialista. E gli americani vedono nel Tevere il ricordo di una scena di film o di una foto della Dolce vita. Le città sono riflessi di riflessi che mutuano da chi le osserva un'immagine a cui adeguarsi. Così le visioni dei situazionisti e la psico-geografia finiscono per determinare nuovi assetti, nuove facciate e quartieri e ispirare l'idea che nelle città bisogna perdersi e che questa è già un tipo di performance. Il Centre Pompidou è un'installazione artistica degli anni Sessanta londinesi e la Torre Akbar di Barcellona l'immagine costruita di una torre vista altrove. L'urbano è un materiale veloce, sfuggente, inarrestabile. La città diventa il quadro di se stessa e perfino quello che in essa può ispirare tristezza, anonimità, squallore e degrado si trasforma in un autoritratto accettabile. Il Bronx diventa allora "maniera" e perfino un aeroporto o un garage o un quartiere deserto può suscitare l'idea di una nuova identità urbana. Hopper smette di essere un pittore di diner e pub tristi e diventa il modo con cui devono apparire questi luoghi per essere davvero americani. È la testimonianza di grandi fotografi come Luigi Ghirri e Gabriele Basilico (quando lo incontrai la prima volta gli chiesi come mai la gente scappasse quando lui arrivava in un posto). E poi c'è anche l'effetto dell'idea di "non luogo", nata come giudizio negativo da un pamphlet dell'antropologo Marc Augé e trasformatasi in produzione di immaginario. Recentemente ad un convegno su città e danza, un architetto incaricato dal Comune di Brescia di progettare la metropolitana dichiarava di essersi ispirato ai "non luoghi" perché gli sembrava giusto che anche una piccola città lombarda potesse godere dell'angoscia dei luoghi metropolitani. È interessante questo andirivieni tra immagini e città perché suggerisce che per provare un sentimento o un'emozione di fronte ai luoghi dobbiamo passare per emozioni altrui. Come nel desiderio mimetico teorizzato da René Girard, o nel racconto di Dostoevskij L'eterno marito, dove un protagonista per desiderare sua moglie deve passare attraverso il desiderio che ne ha l'amante. L'effetto è straniante, per cui luoghi potenzialmente tristi ci attirano e non ne sappiamo il perché e luoghi belli non ci dicono niente perché sono stati trascurati dalla rielaborazione dell'immaginario. Provo un'emozione perfino di fronte all'inquinamento e al traffico urbano e mi commuovono i tramonti dei cieli di Shanghai, i più contaminati del mondo... (F. La Cecla, la Repubblica 27-06-2014) A cura di M. G. Crivella

Michel Foucault: su Blanchot

Michel Foucault: su Blanchot
La percée vers le langage d’où le sujet est exclu, la mise au jour d’un incompatibilité peut-être sans recours entre l’apparition du langage en son être et la conscience de soi en son identité, c’est aujourd’hui une expérience qui s’annonce en bien des points bien différents de la culture : dans le seul geste d’écrire comme dans les tentatives pour formaliser le langage, dans l’étude des mythes et dans la psychanalyse, dans la recherche aussi de ce Logos qui forme comme le lieu de naissance de toute la raison occidentale. Voilà que nous nous trouvons devant une béance qui longtemps nous est demeurée invisible : l’être du langage n’apparaît pour lui-même que dans la disparition du sujet. Comment avoir accès à cet étrange rapport ? peut-être par une forme de pensée dont la culture occidentale a esquissé dans ses marges la possibilité encore incertaine. Cette pensée qui se tient hors de toute subjectivité pour en faire surgir comme de l’extérieur les limites, en énoncer la fin, en faire scintiller la dispersion et n’en recueillir que l’invincible absence, et qui en même temps se tient au seuil de toute positivité, non pas tant pour en saisir le fondement ou la justification, mais pour retrouver l’espace où elle se déploie, le vide qui lui sert de lieu, la distance dans laquelle elle se constitue et où s’esquivent dès qu’on y porte le regard ses certitudes immédiates, cette pensée, par rapport à l’intériorité de notre réflexion philosophique et par rapport à la positivité de notre savoir, constitue ce qu’on pourrait appeler d’un mot « la pensée du dehors ». Il faudra bien un jour essayer de définir les formes et les catégories fondamentale de cette « pensée du dehors ». Il faudra aussi s’efforcer de retrouver son cheminement, chercher d’où elle nouaient et dans quelle direction elle va. On peut bien supposer qu’elle est née de cette pensée mystique qui, depuis les textes du Pseudo-Denys, a rôdé aux confins du christianisme ; peut-être s’est-elle maintenue, pendant un millénaire ou presque, sous les formes d’une théologie négative. Encore n’y a-t-il rien de moins sûr : car, si dans une telle expérience il s’agit bien de passer « hors de soi », c’est pour se retrouver finalement, s’envelopper et se recueillir dans l’intériorité éblouissante d’une pensée qui est de plein droit Etre et Parole. Discours donc, même si elle est, au-delà de tout langage, silence, au-delà de tout être, néant... (M. Foucault, La pensée du dehors) A cura di M. G. Crivella

25. L'immagine iconoclasta: Ingmar Bergman (1978)

25. L'immagine iconoclasta: Ingmar Bergman (1978)
Risulta certo difficile non avvertire nell'ordine ferreo e capillare che sorregge la scena la vibrazione attonita e pervicace di un soffocante afflato mortuario: in essa lo sguardo serpeggia con la contratta indolenza di un gesto involontario che sfiora le cose facendole precipitare nel buio, mentre le posture, sebbene sembrino non tradire tensione, rilasciano una torbida inerzia nella cui molle – e forse inavvertita – agonia la parola affoga prima ancora d'essere proferita o compresa […]. Anche il delirio, sembra dirci qui Bergman, possiede le proprie raffinatissime geometrie: il dialogo aspramente muto che si intesse tra i corpi, così come non conosce pausa o sosta possibile, in egual modo non ricorda il momento del proprio inizio. Attraverso anni e decenni, esso dura inarrestabilmente, come una tortura invisibile che affligga i condannati con maggior violenza proprio nel momento in cui questi credono d'essere stati restituiti alla loro libertà [...]. In Bergman ogni parola è un luogo distante e irraggiungibile, dal quale gli interlocutori si inchiodano reciprocamente alla loro mutua solitudine collettiva. Il semplice darsi in presenza simultanea dei tre protagonisti genera un dissidio annientante e senza possibilità di conciliazione. I loro corpi si incidono in uno spazio comune ma non esprimono null'altro che la loro viscerale lontananza e incompatibilità: messi dunque l'uno a fianco dell'altro non si dà contatto che non sia al tempo stesso ferita e accusa. Si osservi allora per un'ultima volta la scena: una grazia feroce, una delicatezza tagliente, un'armonia angosciante – la madre ha appena cessato di suonare il piano per mostrare ancora una volta alla figlia la corretta esecuzione di un brano – si posa sui corpi dei personaggi pietrificandoli in una rigidità ostentata e snervante; in tale frammento di vita nulla più azzarda il movimento, il respiro stesso è trattenuto, interrotto, soffocato ed il gesto che potrebbe ridare naturalezza a questa situazione – un sorriso, una carezza, un abbraccio, aleggia su di loro come uno spettro osceno... (J-M Noireaux, Le 120 giornate di cinema)

24. L'immagine iconoclasta: H-G Clouzot (1938)

24. L'immagine iconoclasta: H-G Clouzot (1938)
Rappelons que les images se présentent dans l'économie humaine dans un état de déconnexion, avec une apparente liberté entre elles, qui permet toutes ces coalescences, ces échanges, ces condensations, ces déplacements, cette jonglerie que nous voyons au principe de tant de manifestations qui font à la fois la richesse et l'hétérogénéité du monde humain par rapport au réel biologique. Dans la perspective analytique, nous inscrivons très souvent cette liberté des images dans un système de référence qui nous conduit à la considérer comme conditionnée par une certaine lésion première de l'interrelation de l'homme et de son entourage, que nous avons tenté de désigner dans la prématuration de la naissance, et qui fait que c'est à travers l'image de l'autre que l'homme trouve l'unification de ses mouvements même les plus élémentaires. Que ce soit de là ou que ce soit d'ailleurs que cela parte, ce qu'il y a de certain, c'est que ces images, dans leur état d'anarchie caractéristique dans l'ordre humain, l'espèce humaine, sont agies, prises, utilisées par le maniement signifiant. C'est à ce titre qu'elles passent dans ce qui est enjeu dans le trait d'esprit. (J. Lacan, Les formations de l'inconscient) A cura di M. G. Crivella

23. L'immagine iconoclasta: Šarūnas Bartas (1994)

23. L'immagine iconoclasta: Šarūnas Bartas (1994)
L'éclosion prochaine, soit dans la zone occulte du champ perceptif, dans le couloir, dans la chambre voisine, de manifestations qui, sans être extraordinaires, s'imposent au sujet comme produites à son intention; l'apparition à l'échelon suivant du lointain, soit hors de la prise des sens, dans le parc, dans le réel, de créations miraculeuses, c'est-à-dire nouvellement créées, créations dont Mme Macalpine note finement qu'elles appartiennent toujours à des espèces volantes : oiseaux ou insectes. Ces derniers météores du délire n'apparaissent-ils pas comme la trace d'un sillage, ou comme un effet de frange, montrant les deux temps où le signifiant qui s'est tu dans le sujet, fait, de sa nuit, d'abord jaillir une lueur de signification à la surface du réel, puis fait le réel s'illuminer d'une fulgurance projetée du dessous de son soubassement de néant? (J. Lacan, Écrits ) A cura di M. G. Crivella

Werner Herzog (1979) - 2

Werner Herzog (1979) - 2
Da qui anche la strana vicinanza tra follia e letteratura, alla quale non bisogna assegnare il senso di una affinità psicologica finalmente messa a nudo. Scoperta come un linguaggio che tace nella sovrapposizione a se stesso, la follia non manifesta né narra la nascita di un'opera [...]; essa designa la forma vuota da cui proviene quest'opera, ossia il luogo da cui essa non cessa di essere assente, dove non la si troverà mai, perché non vi si è mai trovata. Qui, in questa regione pallida, sotto questo nascondiglio essenziale, si svela l'incompatibilità gemellare dell'opera della follia; è il punto cieco della propria possibilità e della loro mutua esclusione... (M. Foucault, Storia della follia) A cura di M. G. Crivella

22. L'immagine iconoclasta: Werner Herzog (1979)

22. L'immagine iconoclasta: Werner Herzog (1979)
[Büchner] non confronta una cosa con un'altra, ma esprime ciò che in sé è privo di immagine [das an sich Bildlose], e invece di dare a chi parla distanza da se stesso, subentra là dove egli sia sopraffatto e la sua coscienza si vada ottenebrando [...]. Comincia una nuova bellezza, che è simile alla bellezza dei gesti di un animale, quelli miti e quelli minacciosi; l'opinione cede il passo alla consapevolezza, il volere cede il passo al dovere. Amore è vivere nella verità di un essere estraneo, così come si vive nella propria. Divergere da questa verità è il rischio di tutte le lingue, multiforme come la confusione del mondo in cui l'uomo non si stanca mai di fraintendersi, e in cui questo poeta ci guarda con occhio così forestiero - lui, che rimase senza parole e morì per la verità del segno... (M. Kommerell, Il poeta e l'indicibile) A cura di M. G. Crivella

21. L'immagine iconoclasta: Patrick Longchamps (1974)

21. L'immagine iconoclasta: Patrick Longchamps (1974)
Non v'è linea diegetica, non v'è trama a raggio più o meno lungo, non v'è tenuta interna tra gli eventi che possa dirsi coerente o coesa. Ma nonostante tutte queste lacune, defezioni o diserzioni da ciò che abitualmente compagina una storia, "Simone" ha una sua fisionomia unitaria non solo inflessibile, ma anche decisamente infrangibile, tutta attorta lungo i corpi nudi e spettrali delle due donne che, col peso immateriale di un dolcissimo incubo di sangue, riempono gli spazi ciechi delle scene attraverso una levità sacrale e blasfema al tempo stesso. Marcelle è portatrice di una purezza intrisa di peccato, la sua torbida castità è il signum maledictionis di una corruzione genealogica che affligge tutta la sua famiglia [...]. In Simone invece la lussuria è elevata ad un grado di perfezione divina; il suo desiderio erotico non ha misura terrena, non conosce appagamento fisico ma punta piuttosto ad una sublimazione infinita, la quale, come compiuto culmine batailleano del paradosso - attorno a cui non smette di avvolgersi la vicenda - non può non terminare con la selvaggia scena di morte, posta non a caso alla fine della pellicola, in impeccabile simmetria circolare con la sequenza d'esordio... (J-M Noireaux, Le 120 giormate di cinema)

L'arte del paesaggio sulla tela infinita di Tullio Pericoli

L'arte del paesaggio sulla tela infinita di Tullio Pericoli
È ormai tempo di fare un poco di storia sulla più recente pittura di paesaggio di Tullio Pericoli (ora riunita in due mostre al Mag di Riva del Garda, fino al 2 novembre, e al Mart di Rovereto, fino all'8 giugno; entrambe a cura di Claudio Cerritelli); adesso che essa occupa con larga prevalenza quasi vent'anni del suo lavoro condotto sulla tela. Intrufolatasi, quella pittura, nel bel mezzo della dimensione sua più universalmente nota di disegnatore: dapprima quasi di soppiatto, ma presto con piena convinzione di sé. Paesaggi, sono stati, che hanno sin dall'inizio conservato il profumo dell'erba, il vento dei monti e le rifrazioni delle acque che Pericoli ha visto, e che gli sono entrati sotto la pelle; ma paesaggi infine interamente rifondati, non solo rispetto alla moderna nozione del genere, ma anche confrontando il modo d'adesso con quello antecedente dello stesso Pericoli. Per un lungo tratto, che ripercorre attraverso cento e cento immagini un prezioso suo libro recente ( I paesaggi, Adelphi 2013), il paesaggio è stato per Pericoli un luogo capiente, atto ad ospitare i sogni infiniti, le innumerevoli incursioni dell'occhio sulla natura. Che tutta, proprio tutta (terre incolte od arate, alberi potati e foreste, acque quiete o scroscianti), stava in quelle tele, o in quelle carte, talvolta ancora sorvegliate da una silenziosa figura di "testimone" che Tullio Pericoli convocava a margine del suo paesaggio nei grandi pastelli che immediatamente precedettero la stagione della pittura ad olio. Allo sguardo inguaribilmente curioso sul mondo tendeva allora la mano una fantasia visionaria, capace di trasformare ogni cosa toccata, sragionando: «il pavimento è impazzito, sta producendo paesaggi», scriveva allora, quasi preannunciando la stagione che stava per aprirsi, un nostro grande scrittore scomparso, Antonio Tabucchi. C'è sempre stato – allora come oggi – poco cielo, in Pericoli. Tutte le sue cose, invenzioni, avventure (sogni, e segni: perché di segni adesso soprattutto si tratta) si danno di gomito al punto che, costrette a convivere così sulla tela mai abbastanza grande, finiscono per salire in cerca d'aria, e per occludere quasi l'orizzonte. Nasce così il suo spazio: il vero elemento della continuità di questo lavoro: uno spazio che finge di non conoscere la cubatura prospettica dell'umanesimo, che rinnega Masaccio e torna a Beato Angelico, ai suoi prati infiorati, e ai serragli infiniti del Medioevo; o che, oltre la logica rinascimentale, riscopre la follia di un manieristico horror vacui. Uno spazio che s'innalza davanti agli occhi come un'impervia, altissima parete verticale, che arriva a sfiorare il cielo, a toccare la linea dell'orizzonte, e di lì fa scendere, una sopra all'altra, le sue infinite enumerazioni: come disegnate su di un tappeto srotolato. Questo spazio onnivoro è quel che soprattutto rimane oggi al pittore della stagione che s'è lasciato alle spalle. Vi piomba addosso, ora come allora, dall'alto, precipitandovi come a capofitto, e affidando ad un attimo lo sguardo rapinoso su di esso. Così che c'è tanto meno racconto delle curiosità e delle casualità del mondo, oggi, in questa pittura; e, per converso, sta ovunque in essa un ripiegarsi a guardare i gangli nascosti, i nodi appartati di quella terra che, alla superficie, ospiterà poi l'avventura della fantasia. La materia – stesa grossolanamente, talvolta dalla spatola o dal rovescio del pennello, in una cromia ricca e variata – la scrive: una materia su cui i segni usati scavano percorsi, serpentine, frane e smottamenti, come fossero alla ricerca di un tempo primo della vita. (F. D'amico, La Repubblica 18-05-2014) A cura di M. G. Crivella

20. L'immagine iconoclasta: Lars von Trier (1980)

20. L'immagine iconoclasta: Lars von Trier (1980)
Presa torpidamente a sfaldarsi nell'ipnotico intarsio di uno stop-motion solo apparente seppur perpetrato fino all'inesorabile lacerazione eruttata dal livido bianco del fondo, l'immagine d'esordio s'impone nella palpebrante attesa d'una irruzione senza causa o riparo: quest'ultima infatti viene a iscriversi [...] quale desolato ricamo d'oscure solitudini sospese e squilibrate tra la spalancata desolazione di un occhio il cui vedere sia ormai prossimo al prosciugamento nel rotto paesaggio d'oggetti nervosamente sgranati da cecità dilaganti e la calcinata luce di uno sguardo che nel proprio cinereo incedere trasuda nebulose bave di notte [...]. Nodosamente insinuatasi nei necrotici poli del reale fino ad annegare personae loquentes sine vulto et nomine - astrette le une alle altre dalla livida embolia di un dire capace di trasformare lo spazio del dialogo in una lacunosa chambre d'écoute ove le rispettive voci s'arenano emaciate fino alla soglia estrema dell'insignificanza - l'immagine, impersonale e preindividuale, si origina solitaria e remota in un incendiario cerchio cerebrale. [Esso], riverberando polimorfe arborescenze e fragili ibridazioni derivate da una falda inferma di bianca tenebra ora smembrata nel granuloso turbinio di visibile risalito a stadi brutalmente embrionali, ora riassorbitosi in disabitate orbite venate da sotterranei vortici allucinatori, ribolle inquieto per l'anfibio balbettio d'epifanie perpetuamente prossime a insabbiarsi lungo un labile e babelico limbo di ramificate epilessie ottiche... (M. G. Crivella, Le 120 giornate di cinema)

19. L'immagine iconoclasta: Alain Robbe-Grillet (1995)

19. L'immagine iconoclasta: Alain Robbe-Grillet (1995)
Che qualcosa di simile ad una vischiosissima impurità si sia prodotto nella bianca trama di "Un bruit qui rend fou" risulta immediatamente indubbio [...]. Più difficile sembra invece reperire una informazione circostanziata su questo qualcosa avvenuto in modo simultaneamente certo e sfuggente, chiaro e nebuloso, già trascorso e prossimo sempre a ripetersi in una prima volta distillata nel tempo. Che Robbe-Grillet sia bravissimo a confondere le idee intorbidando le acque per un eccesso di chiarezza - come forse avrebbe detto Blanchot se avesse visto questo film - lo sappiamo grazie alla lunga frequentazione con le sue prove romenzesche che molto devono a Beckett; ma in questo caso egli sceglie di impaginare una sceneggiatura [...] che in modo piuttosto spiazzante evita di sovrapporre o sfocare i personaggi e non si limita a replicare i luoghi accorpando tempi e situazioni; questa volta Robbe-Grillet sceglie di affidarsi unicamente alla sinistra potenza del trasparente, del lineare, nonché del liminare [...]. Così è proprio la squadrata ovvietà di un evento accaduto - che nel suo accadere non smette di riproporrsi in momenti infranti e degradati a memoria lacera - che inizia a fare problema, a costituire cioè un denso e fosco nodo di questioni posizionate esattamente nel centro di rotazione della vicenda, in modo tale che quest'ultima invece di "ingranare" secondo uno specifico e definito asse di sviluppo, si presenta come una paralizzata macchina narrativa, cristallizzata cioè su se stessa e costretta pertanto a proliferare immobile, avvolgendosi sempre più sul proprio instabile nucleo di sviluppi deviati rispetto alla loro matrice, ma collimanti nel loro degenerato gioco di riflessi [...]. La vera bravura di Robbe-Grillet allora non sta tanto nel disseminare le tracce controverse che ora sviano la ricerca ora la raccordano ad un pulviscolo di indizi incongrui; la sua raffinata maestria consiste in questo caso nell'aver saputo architettare un perfetto piano di tangenza e incrocio, sovrapposizione e contrasto tra l'evento verificatosi e l'estinzione di esso in una capillare convergenza di episodi tanto più eloquenti se presi isolati quanto più elusivi se organizzati in sistema. Che qualcosa sia accaduto non è più forse il dato saliente da cui muovere per capire cosa, quando, dove e perché un evento si sia prodotto, ma piuttosto rappresenta una conturbante postulazione preliminare per intuire - sospettosamente o comunque in modo fatuamente indiziario - che cosa possa legare vari momenti smarriti in un tempo ellittico di ritorni deformi con determinati luoghi dell'isola recanti i segni del passaggio di alcuni personaggi i quali non smettono di accumulare passi falsi che, allineati, sembrano condurre esattamente al punto da cui le presunte indagini erano partite [...]. Dunque nella flessibile e flebile scissura di una doppia specularità reciprocamente refrattaria tra due accecamenti simmetrici, inversi ed inclusivi l'uno dell'altro, si colloca l'oscuro fatto di sangue con una precisione così nitida da renderlo assolutamente irreperibile in sede di ricostruzione, dalla sintassi talmente rigorosa e compatta che ogni tentativo di reperimento indiziario non fa che destrutturarlo secondo linee di configurazione incongrue, le quali si generano innumerevoli sul bordo invisibile di un abbacinante point-aveugle verso cui ogni oggetto o parola, ogni gesto, pensiero, ricordo è rivolto per meglio eludere e nascondere la propria ossessionante e scabrosa verità. (J-M Noireaux, Le 120 giornate di cinema)

18. L'immagine iconoclasta: L'impuro folle...

18. L'immagine iconoclasta: L'impuro folle...
Il Presidente Schreber fu sciàveri psichici in piogge d'alabastro, marmorizzate oasi di silenzio nell'infetto derma della linea che sutura le palpebre in orizzonti puntiformi, velari fossili cresciuti tra le unghie e la voce, un lessico innervato dall'euforia di roghi catari, il sibilo incendiario d'un Angelo Sterminatore dalle orbite vuote, uteri adibiti a festosi templi dove celebrare riti per un'ortodossia senza regole, paludose semenze segregate oltre il limite dell'ipotalamo, interregni d'organi dispersi, matasse nervine secretate in un lacerto di carne arcaica, membri ora eletti ora eretti, variopinti boudoirs ricavati dalla vasta frana di un pantheon per atei, coacervi d'esfoliate cartilagini canore sotto cui è inumata l'immensa carogna d'una divinità solare, sfinteri trafitti da frantumi di vetro affioranti ai confini del vento, forcipi trapezoidali impiegati per sottrarre al peso di un corpo la radice quadrata della sue ombre portate...(M. G. Crivella)

17. L'immagine iconoclasta: Michel Gondry (2013)

17. L'immagine iconoclasta: Michel Gondry (2013)
En abîme - ma forse anche in anacrusi intercalata - Gondry esplicita letteralmente il saccheggio rapsodico da Vian. Ritaglio, imbastitura e collazione sono un'opera collettiva di cadaveri squisiti - adibiti qui a inesauribile catena di smontaggio - calibrati e coordinati dalla legge dei grandi numeri: maggiori sono i partecipanti, più ampia e trasversale diventa la combinatoria dei (com)possibili insufflati nella texture imaginaire du réel a dirottarne orditi e ordini... (M. G. Crivella, Le 120 giornate di cinema)

16. L'immagine iconoclasta: Michelangelo Antonioni (1962)

16. L'immagine iconoclasta: Michelangelo Antonioni (1962)
Zwischen Spuren und Figuren...Tra la traccia e la macchia, l'informe qui tiene in fredda ebollizione l'immagine, come un'ecchimosi del visibile (e nel visibile), già assediato - forse addirittura posseduto - prima ancora del suo labile schiudersi, dal rotto rapprendersi di un reale paranoide... (G. Crivella, Le 120 giornate di cinema)

Campigli, l'uomo che dipingeva solo le donne

Campigli è un pittore di seconda battuta: infatti per molti anni fece il giornalista per il Corriere della Sera e fu vice-corrispondente da Parigi: firmò con il nome de plume che adottò per tutta la vita. Vita misteriosa a lui stesso: solo a 14 anni scoprì che la "zia Anna" Ihlenfeld, ragazza-madre l'aveva concepito a Berlino nel 1895, e l'affidò alla sua mamma a Settignano. Un destino quello del gineceo dipinto da Campigli che è legato nella sua intimità più profonda alle donne, alla Toscana e ai primitivi: incominciò ad amarli fin da bambino, sbirciò nei musei della Toscana e poi al Louvre scoprì gli egizi. Arruolatosi volontario nella Grande guerra, nel ‘18 rientra in una Milano scossa dal futurismo: ma ben diverso impatto hanno su di lui Parigi e il Cubismo, che volgeva ormai verso quel "ritorno all'ordine" dominato dal monumentale universo muliebre di Picasso e Braque. Conosce non solo i deutoragonisti di quel mondo, ma Gris, Léger, Picabia, gli italiani che erano di casa a Parigi: Severini, de Chirico, il "marchesino" De Pisis, Paresce. Da questa mescola nasce un pittore che conserva intatto il mistero e l'enigma della sua infanzia. Nel 1928, abbandonato il giornalismo, si dedica alla pittura. Il suo universo è sempre il medesimo: c'è una coerenza, un'immobilità nelle sue donne-clessidra che ne fa una delle personalità più singolari del Novecento, e s'accosta a Morandi, anche per la distanza discreta che tenne con il movimento di Margherita Sarfatti. Artista dimenticato, se non fosse per la grande mostra in Germania del 2003 e la ricca retrospettiva Campigli. Il Novecento antico , a cura di Stefano Roffi, che si tiene alla Fondazione Magnani Rocca, Mamiano di Traversetolo (Parma), fino al 29 giugno (catalogo Silvana). La rassegna è scandita in cinque sezioni, oltre ad ospitare in giardino i grandi mosaici. Il teatro è la sua commedia umana, dominato da figure femminili misteriose e eleganti, piatte, senza nessun cedimento alla prospettiva. Sono l'effetto della ritrattistica etrusca, scoperta nel museo di Villa Giulia a Roma. Sono icone, totem, formano coppie e trittici, sono inserite in riquadri e sipari lievi come lieve è la sua tavolozza. «Non mi sono rifugiato nel sogno, nell'infantilismo, ci sono semplicemente rimasto, non ne sono mai uscito»: scrive in Scrupoli, un libricino autobiografico del ‘55 che fa ricordare il Carrà metafisico per la secchezza della scrittura. Certamente, accanto al teatro delle muse, si stacca il ritrattista di mano sicura e felice: a cominciare dai bellissimi ritratti di Bruno Barilli (1928), Curzio Malaparte (1933), Gio Ponti con signora e tre bambine deliziose (1934). Campigli ha una cultura cosmopolita e legge in originale Freud e Jung, quando pochi sapevano chi fossero. Col passare degli anni la vena quasi monocroma si va attutendo e molte tele dal Quaranta al Sessanta segnano questa svolta che dona un tono più allegro a muse, maschere, dee che ballano, giocano e sembrano essere il luogo del suo incantato e ieratico universo femmineo. Antico, certo: pittore sempre "fuori stagione", ma non fuori del tempo che visse, sempre sicuro di non dire parole false nella giostra dell'arte.

(C. De Seta, La Repubblica 28-04-2014)

A cura di M. G. Crivella

15. L'immagine iconoclasta: Béla Tarr (2011)

15. L'immagine iconoclasta: Béla Tarr (2011)
Nel punto d'innervazione, in cui l'immagine riflessa nella retina si fa propriamente visione, l'occhio è necessariamente cieco. Esso organizza la visione intorno a questo centro invisibile - il che significa anche che tutta la visione è organizzata per non farti vedere questa cecità. È come se questa illatenza contenesse, incastonata nel proprio centro, un'inestinguibile latenza [...]. È tenendosi con tutte le sue forze a questo punto cieco che l'uomo si costituisce come soggetto cosciente. È come se egli cercasse disperatamente di vedere la propria cecità. Così, per lui, in ogni visione si insinua un ritardo, una non-contiguità e una memoria fra stimolo e risposta. Per la prima volta l'apparenza si separa dalla cosa, il sembiante dallo splendore. Ma questa goccia di tenebra - questo ritardo - è relativa a qualcosa che sia, è l'essere. Per noi soltanto le cose sono, sciolte dai nostri bisogni e dal nostro immediato rapporto con esse. Esse sono, semplicemente, meravilgiosamente, irraggiungibilmente... (G. Agamben, Idea della prosa) A cura di M. G. Crivella

14. L'immagine iconoclasta: Carmelo Bene (1968)

14. L'immagine iconoclasta: Carmelo Bene (1968)
Occhio e specchio, a lungo intrecciati nella quieta cospirazione di frontalità dirette e spontanee, si trovano qui d'improvviso, e forse per la prima volta, spodestate dai loro "luoghi naturali" e sollecitati a sommuovere e sfocare le rispettive aree di innesto e sviluppo, assorbimento e rifrazione. [...] Carmelo Bene inscena uno spettacolo che sembra concentrarsi (o dissiparsi) per implicazioni circolari di pensiero e percezione, allucinazione e parola, al centro di una angusta chambre visuelle - forse frutto di una evocazione tutta wittgensteiniana - il cui denso e capillare strutturarsi in immagini (mobilitate a mostrare un altrove della presenza inassegnabile ma ineludibile) collima a contrario con lo smontaggio puntiforme e ostinato del rarefatto congegno rappresentativo/narrativo. In seno a questo infatti appare e si muove quanto si trova infinitamente prima-fuori-oltre esso, così che in un luogo privo di immagine inizia a galleggiare un'immagine priva di luogo, violando (violentando) e dissestando (disinnescando) tutte le convenzioni plurisecolari puntellanti la impermeabilità e la imperscrutabilità della quarta parete. E' soltanto una voce priva di corpo (inteso qui quale puro sito declamatorio) che riesce a perforare lo spessore simultaneamente concreto e finzionale della scatola scenica, ovulando intorno ad essa una ulteriorità di segni e sensi che ne mettono in vibrazione la compattezza, ne cariano la tenuta stagna, ne minano e mimano la chiusura concentrica. [...] Il teatro così non è più lo spazio di uno sguardo dinanzi al quale un evento reale assume le fattezze di un accadimento fittizio, e lo specchio cessa d'essere il campo cieco tramite il quale un'immagine fittizia rinvia ad un oggetto reale, ma entrambi gravitano in una fibrillante attrazione centrifuga tra dimensioni contrarie e complementari, ove forse Bene intercetta lacanianamente l'ineffabile linea dell'immaginario, chiamata a saturare e suturare infinitamente per inviluppo e disseminazione la regione del simbolico e le istanze del reale... (M. G. Crivella, Le 120 giornate di cinema)

I. Fenomenologia e Letteratura...

Non possiamo dire altro che: questo flusso è qualcosa che noi chiamiamo così in base al costituito, ma che non è nulla di temporalmente «obbiettivo». È l'assoluta soggettività ed ha le proprietà assolute di qualcosa che si può indicare, con un'immagine, come un flusso, di qualcosa che scaturisce da un punto di attualità, in un punto che è fonte originaria, in un «ora», ecc. Nel vissuto dell'attualità, noi abbiamo il punto-fonte originaria e una continuità di momenti di risonanza. Per tutto questo ci mancano i nomi.

(E. Husserl, Lezioni per la fenomenologia della coscienza interna del tempo)

Il sole pioveva in cunei acuti dentro la stanza. Tutto quel che la luce toccava veniva dotato di un'esistenza fanatica. Un piatto era come un lago bianco. Un coltello sembrava una daga di ghiaccio. A un tratto i calici si rivelavano sostenuti da strisce di luce. Tavoli e sedie affioravano alla superficie come se fossero stati sommersi sott'acqua, e affioravano coperti da una pellicola rossa, arancione, violetta come la patina sulla buccia della frutta matura. Le venture sulla vernice delle porcellane, la grana del legno, le fibre delle stuoie si incidevano sempre più nitidamente. Le cose erano tutte senz'ombra. Un vaso era così verde che l'occhio sembrava risucchiato attraverso un imbuto da quella intensità, e attaccarvisi come un'ostrica. Poi le forme assumevano volume e contorni. Qui la protuberanza di una sedia; lì la massa di una credenza. E mentre la luce cresceva, cacciava via davanti a sé greggi d'ombre che si addensavano e pendevano in viluppi di pieghe sullo sfondo...

(V. Woolf, Le onde)

A cura di M. G. Crivella

13. L'immagine iconoclasta: Emidio Greco (1974)

13. L'immagine iconoclasta: Emidio Greco (1974)
La memoria, per Bioy Casares, è una macchina di immagini in maceria, animate ed agitate - forse addirittura agite - da una sorta di oscura macerazione interna che conferisce loro una sottile patina di coscienza, embrionale e lacunosa, fatua e rapsodica, nel cui tremante snodarsi la ripetizione sfocia sempre in un ibrido brancolamento dell'essere ove non si dà più alcuna differenza tra ricordo e presente e dove il tempo scorre unicamente lungo un tracciato che, anche quando non ricalca il solco delle azioni precedenti, riesce ad incapsulare le incognite devianti in irrelate resine di realtà stillanti dalla immemoriale matrice di registrazione [...]. Bioy Casares in tal modo dilata la sedimentazione retinica dell'immagine, la quale solitamente si risolve in pochi istanti, nel prolungarsi della trasposizione mnestica, che spesso occupa un lasso di tempo particolarmente ampio. All'interno di questo scambio incrociato e drammatico il naufrago, in particolare l'occhio del naufrago, costituisce una sorta di residuo inizialmente distopico e inassimilabile perché estraneo alla presa della macchina, ma alla fine perfettamente congruente con il funzionamento del congegno, dal momento che questo verrebbe a perdere ogni rilievo e significato in assenza di uno sguardo d'altro(ve) che ne motivi la proiezione continua e immaginaria. Il soggetto - il naufrago, ma anche noi che osserviamo il naufrago osservare gli ospiti dell'isola - è qui, per dirla con Lacan, sempre preso in una divisione costituente, collocato nel nodo della differenza, in perenne esclusione interna al suo oggetto, «pulsazione del bordo [lungo] un'identità ridotta al confronto col suo doppio psichico, [il quale] rende patente la regressione del soggetto, non genetica ma topica [...], in quanto in lui la relazione con l'altro speculare si riduce al suo doppio taglio mortale». Alla luce di ciò, l'epilogo non poteva essere diverso... (G. Crivella, Le 120 giornate di cinema)

12. L'immagine iconoclasta: Michael Haneke (1997)

12. L'immagine iconoclasta: Michael Haneke (1997)
La misura terrena della verità in Kafka non è assolutamente raffigurabile tramite l'immagine della distesa vastità di una regione che sia possibile percorrere e sondare, frequentare e conoscere [...]. La verità, ne Il Castello così come ne Il Processo, è piuttosto simile ad un indistinguibile e angustissimo foro profondo praticato da qualche insetto in un terreno ghiaioso: ciò preclude la possibilità di intrufolarvisi o di attraversarlo come uno spazio praticabile. Al massimo, se per una malaugurata sorte ci si imbatte in esso, non ci resta che applicare il nostro sguardo al foro in superficie nella speranza di non scorgere dall'altra parte il sinistro lucore di un occhio animale che ci scruti con la stessa torbida curiosità con cui noi osserviamo lui [...]. Kafka sa che la verità è nascondiglio e non rivelazione, ottenebramento obliquo e progressivo e non illuminazione improvvisa e totale. Essa non riverbera di beatitudine ma piuttosto coincide con un sofferto scivolamento sotterraneo, con una sorta di scavo ipodermico perpetrato nei confronti di evidenze piene ridotte ogni volta ad anatomie ulcerate, ferite, sempre semi-decomposte [...]. E come la verità, anche la decomposizione - sottile e immateriale, causata da un'invisibile lama che solca i corpi dall'interno lasciandone intatto l'involucro esteriore - è un'altra componente aberrante in seno allo spastico cosmo kafkiano: essa non colpisce post-mortem, essa sopraggiunge lungo il contorto asse di una longevità esasperata, estenuante, eccessiva [...]. Oggetti, luoghi, persone in Kafka durano al di là della loro esistenza, seppur vivi sono già colti da tempo immemorabile da un processo di cadaverizzazione inarrestabile, così che in ogni circostanza rimane irreperibile il frangente d'oscuro fulgore in cui si sarebbe dovuto produrre il trapasso dalla vita alla morte [...]. In tal senso il Castello non designa un luogo effettivo ma piuttosto un limite irreale, uno spazio verticale di cesura e contatto dalle coordinate inassegnabili, un discrimen sine loco chiamato a separare i defunti - destinati a godere di una morte piena - da tutti coloro condannati a sopravviversi in una funebre movenza da commedia il cui epilogo è di volta in volta soltanto un doloroso intermezzo calato in quel grumoso reiterarsi di prove che mai culminerà in una prima [...]. In egual modo, inframezzato dall'intercorrere inflessibile e spiazzante di impenetrabili quadri neri che spezzano la narrazione in un concatenarsi a singulti di plessi disgiunti, il discorso filmico di Haneke procede per continue spinte e controspinte, le quali non cessano di far sprofondare ogni volta le varie sequenze diegetiche in un viscerale fondo avvolgente che assorbe le immagini in una tenebra compatta come il sonno della terra, nella profondità astratta e detritica insieme di un sottosuolo cerebrale ove ancora di tanto in tanto pupille biancheggiano simili a frantumi di petali, le corolle di un fiore si chiudono come per la stretta di un pugno e il volto di una donna ondeggia lacero in un cieco intrico di radici... (M. G. Crivella, Le 120 giornate di cinema)

L'astrazione di Simon Hantaï.

L'astrazione di Simon Hantaï.
Diceva di venire dopo “la forbice e il bastone gocciolante”, rivelando così i suoi due grandi amori. Le fonti della pittura di Simon Hantaï erano infatti i “papier collé”, le carte ritagliate, di Henri Matisse e il dripping di Jackson Pollock. Gli sono sempre stati accanto. Due mondi lontani: il primo pacato e mediterraneo, l’altro drammatico e oscuro che hanno trovato una splendida armonia tra le tele del pittore, che era nato in Ungheria nel 1922, ma viveva a Parigi dal 1948 (morì nella capitale francese nel 2008). Dopo un soggiorno italiano alla scoperta dell’arte del passato. E oggi è a Roma che ritornano le sue opere in una mostra a Villa Medici curata da Éric de Chassey, aperta fino all’11 maggio, che raccoglie una quarantina di opere e che segue la grande dal Centre Pompidou. L’Italia fa subito capolino nella grande tela A Galla Placidia dove Hantaï rivisita, a tocchi di pittura, i mosaici ravennati riuscendo, in una nuova forma astratta, a evocare perfettamente la luce dorata della cupola del mausoleo dominata dalla croce. Immagine che compare, tra segni e graffi, anche nella sua opera, datata tra il 1958 e il 1959. Di fronte a questo dipinto c’è l’altrettanto affascinante Pittura (scrittura rosa) un quadro luminoso, costruito con un fittissimo intreccio di parole che tesse una trama pittorica su cui Hantaï ha tracciato segni riconoscibili come simboli delle tradizioni religiose di cui si considera erede: «una croce, una stella di David e una macchia che evoca il rovesciamento del calamaio di Lutero» come scrive il curatore nel piccolo catalogo (Drago Editore). «Su questa tela – affermerà l’artista – non è stato utilizzato il colore rosa. Soltanto inchiostro rosso, verde, viola, nero e terra rossa chiara o scura, nonché terra verde». Il rosa che ti avvolge è dunque l’effetto della magia alchemica della pittura. Dal 1960 Hantaï comincia a piegare e accartocciare la tela, poi la imbeve di colore e riapre, lasciando che la pittura sia con un ritmo alternato di pieni e vuoti. È la tecnica del pilage, tipica della sua astrazione che, nel corso del tempo, diventa sempre più leggera. Come se Matisse avesse prevalso su Pollock. (L Mattarella, La Repubblica 16-03-2014) Simon Hantaï, étude (1969)

11. L'immagine iconoclasta: Theo Angelopoulos (1984)

11. L'immagine iconoclasta: Theo Angelopoulos (1984)
Probabilmente né genio del cinema, né poeta per immagini... Se dovessimo proporre una definizione per Theo Angelopoulos non avremmo alcuna esitazione nel designarlo quale "architetto di visioni sospese". Il suo cinema è infatti una sottile frangia di spuma e alghe che la mano di una sposa in lacrime sfiora per confondervi il suo pianto; il suo cinema urla e brilla come la lama liquida ed oscura di un silenzio senza volto che due amanti si sussurrano all'orecchio, ripensando ad ogni bacio negato, ad ogni carezza trattenuta. Il suo cinema è un cielo infermo di sabbie gelide, le quali, grano dopo grano, precipitano con decrepita lentezza nello spalancato umidore dell'immenso occhio che un sole nudo e nero apre insonne da una crepa della terra. Il suo cinema si sostanzia di ignote nubi, le quali hanno perso tutta la loro molle levità per contrarsi nella scheggiata materia di una gabbia toracica che il vento attraversa cavandone sibili e ululati disumani. Il suo cinema è un volto cereo e affilato che senza prevviso affiora intriso di strazio dal lattiginoso galleggiamneto di frasi nella bocca di un vecchio solitario seduto in un angolo nell'ultima stanza di una casa in rovina. Il suo cinema è una voce orfana di suoni che consuma anche l'ultimo respiro per farsi lontananza senza ritorno, oblio senza passato, tramonto e vertigine. Il suo cinema è un vitreo fiore le cui radici penetrano l'ottusa carne degli uomini nella tesa sembianza di una mano, la quale allarga le dita per afferrare e graffiare, stringere e strappare il cavo cuore d'odio che ancora affannosamente tiene in vita, nell'anonimo dibattersi della storia, il corpo estraneo del ricordo. Il suo cinema si lacera nel feroce contorcersi di ceneri celate nell'inquieta e acerba luce di un accecato fendersi di nevi fradice. Il suo cinema albeggia trafitto d'echi infiniti e indistinti, si ibrida d'ulcerate lune venate dal bianco sonno di un cieco che vede il mondo per la prima volta tutte le volte che sogna. Il suo cinema è frantume e onda, venatura e tremito, deriva e sangue, polvere e pietà...ma che cos'è la pietà, se non "la bolla di sapone che brilla un attimo, scoppia,/ e non sa di chi era il soffio"...? (M. G. Crivella, Le 120 giornate di cinema)

La pace degli opposti secondo Bonalumi

La pace degli opposti secondo Bonalumi
È la prima grande mostra dedicata ad Agostino Bonalumi dalla sua scomparsa, avvenuta a Milano in settembre all’età di 78 anni. Aperta al Marca fino al 31 maggio, curata da Alberto Fiz e dal figlio dell’artista Fabrizio, raccoglie una quarantina di opere che permettono di scoprire come il mondo del pittore sia variegato e complesso, pur restando sempre fedele a quella straordinaria intuizione della tela “estroflessa”. Tutto ha inizio nel 1959 quando Bonalumi, che aveva già esposto l’anno prima insieme ai suoi amici e sodali Castellani e Manzoni, abbandona la materia della pittura informale, i tessuti imbevuti di colori, le fascine di legno adagiate sulla tela e dipinte, per una ricerca volta a togliere, semplificare, mettere ordine al caos, riducendo gli elementi compositivi a un alfabeto semplificato, riconoscibile eppure sempre pronto a reinventarsi. A guardare con attenzione questi suoi esordi materici si capisce bene come nei legni che interrompono lo spazio bidimensionale uscendo dalla cornice del quadro, in quelle stoffe accartocciate che creano volume, c’è già tutto il desiderio di realizzare dipinti che sono anche sculture, e poi, a volte, architetture, spazi da vivere e abitare. In mostra, tra molte opere rare e inedite come il Rosso del 1967 o il Bianco del 1969, c’è il primo passo di un cammino durato più di cinquant’anni: un piccolo quadro nero in cui la tela si sporge in avanti, verso il visitatore, con una serie di curve morbide. Si tratta di un paesaggio geometrico in cui però, come avviene sempre in Bonalumi, c’è un elemento spiazzante, una linea che non è dritta come te l’aspetteresti, un angolo che sporge, una minima rientranza che fa di un cerchio quasi un corpo vivo, un elemento femminile, un seno, un ventre. Tanto da farti venire in mente La Madonna del parto di Piero della Francesca. E qui bisogna affrontare l’altra faccia di Bonalumi, perché tutto il suo universo è una ricerca di armonia tra gli opposti. L’artista è uno sperimentatore accanito: dopo aver trovato una forma, come per esempio quella in cui due figure curvilinee sembrano abbracciarsi, caratteristica delle opere realizzate intorno al 1968, la abbandona per cercare altro e se la recupera è in una dimensione completamente rinnovata. Nello stesso tempo però ha ben chiara la sua discendenza dall’arte del passato, da una linea italiana in cui è resa possibile la comunione tra il rigore di Piero e la linea convessa di Borromini. Bonalumi estroflette sempre in modo nuovo: ci sono gli anni in cui utilizza dei piccoli pezzi di legno che, nascosti dietro la tela, creano ombre e luci, apparizioni e scomparse; in altri invece anime di fil di ferro inventano spazi disegnati senza un apparente ordine. Le tensioni che spingono da dietro sono una soglia che nasconde qualcosa di misterioso, di segreto. Su ognuno di questi dipinti, nati da un progetto preciso, c’è la mano dell’artista. «Devo valutare la spinta, capire come guidarla», diceva. E aggiungeva: «E poi ho scelto questo lavoro perché mi diverte, che senso avrebbe farlo fare a un assistente?». Era un guardiano di forme, un inventore di geometrie organiche, capace di ritrovare sulla tela quella che in una sua poesia aveva definito l’incestuosa coppia di artificio e natura. (Lea Mattarella, La Repubblica 09-03-2014)

10. L'immagine iconoclasta: Josef von Sternberg (1934)

10. L'immagine iconoclasta: Josef von Sternberg (1934)
La vita di corte qui è oggetto d'una soffocante veglia messa in scena dal lugubre corteo di simulacri deformi, grotteschi, ignobili, i quali periodicamente invadono il quadro. Affiorando silenziosamente dall'ombra, come grumi osceni d'una memoria impersonale e pertanto duramente oggettiva, essi incarnano la sostanza stessa di un potere che non viene assolutamente esercitato, ma piuttosto esibito e celebrato quale rito funebre, nelle cui fangose spire il volto di cera di Caterina si trova ad essere orrendamente assorbito fino a diventare l'ottuso emblema d'un cimiteriale amplesso consumato tra un'elefantiaca ragion di stato e il miope ma manipolabile calcolo de singoli... (F. Fiore, Le 120 giornate di cinema)

9. L'immagine iconoclasta: Luis Buñuel (1965)

9. L'immagine iconoclasta: Luis Buñuel (1965)
Il richiamo disordinato del lontano è un'estasi funebre, postulazione dissolutoria dei sensi assorbiti da un assoluto che ha il sembiante d'un raggelato deserto. In esso non si dà corpo se non negli aspetti immondi d'un suppurante serpere di inique schiume inquinanti l'essere, e non è ammesso pensiero se non come la dissipazione amorfa delle energie mentali nell'ustionata falda d'una riflessione che vive la verità quale agglutinante nebbia... (J-M Noireaux, Le 120 giornate di cinema)

8. L'immagine iconoclasta: Orson Welles (1941)

8. L'immagine iconoclasta: Orson Welles (1941)
Il nome, isolato da ogni zona più o meno densa di significato, emerge come una nuda ipotesi dal magma di quel passato dove entropia e tautologia arrivano a coincidere senza resto l'una con l'altra nelle abnormi dimensioni di un'identità deviante dalla erosa matrice del medesimo, divenuto ora frastaglio e fuga, ferita dell'informe fiorita ai margini di ciò che la procura [...]. L'indagine dilaga nel falso specchio di una interrogazione accurata ma fallace; stati di mondo apparentemente collimanti s'associano in realtà per contrasto, all'interno di una polarità deforme e paradossale che sfida e sfibra le dure regole del raziocinio ordinatore mostrandone in toto la livida insolvenza. La macchina da presa enuncia con moto simmetrico all'inizio e alla fine i limiti di un luogo sottilmente parentetico, entro cui il discorso della ricerca incide i propri solchi, sviluppa congetture, disegna tracciati ottemperando con rigore e acribia ad un programma di indagine messo a punto con rara perizia analitica. Ma in effetti tutto s'addensa lontano, al di fuori di quanto è stato messo a fuoco, al di là di tutto ciò che è stato passato in rassegna, nella macroscopica capillarità di una svista quasi consapevole, la quale finisce col trasformare il lento vaglio della ponderazione in una soffusa sirte ove forse il frammento vale più del tutto... (M. G. Crivella, Le 120 giornate di cinema)

7. L'immagine iconoclasta: Šarūnas Bartas (1996)

7. L'immagine iconoclasta: Šarūnas Bartas (1996)
L'archeologia si rivela dunque o una magra filosofia eraclitea, oppure niente, risvolto della Storia, storia al negativo, antistoria. Ancora e anch'essa sogno, visione dell'ordine vuoto che sta sotto l'ordine pieno del mondo fisico visibile (l'ordine vuoto dei confini e delle leggi), metafora d'una perdita, d'un taglio dalle origini che incombe su ogni presente. [...] La Storia è la ricerca d'una identità da parte d'un gruppo sociale, ma cos'è l'archeologia? Una conferma o una scoperta che nessuna identità va bene, nessuna interiorità e nessuna origine ci appartiene (semmai: noi apparteniamo all'indifferenziato terreno d'ogni origine, come le cose e le piante). [Essa] è una quête senza meta, spazializzazione e flânerie, ininterrotta visita ai luoghi molecolari d'una città eterotopica dove galleggiano all'infinito residui d'estraneità, oggetti e tracce di ciò che si è perduto e nessun museo è disposto a conservare... (G. Celati, Finzioni occidentali) A cura di M. G. Crivella

6. L'immagine iconoclasta: Miklós Jancsó (1972)

6. L'immagine iconoclasta: Miklós Jancsó (1972)
Fare dell'immagine l'abbandonato fuoco di contatto e confine, il 'terme épars' di un proferire proibito che diventa profanazione e fremito di notti rimarginate sulla pallida pelle della memoria [...]. L'immagine dissalda e svela la soglia d'indicibile che la parola cova in sé, soglia intestina al dire stesso e attorno alla quale esso germina nella severa vanità d'un vero qui vissuto come uno splendido corpo in decomposizione, luogo infinito dell'estremo anchilosato e trattenuto negli interstizi colpevoli del buio. (J-M Noireaux, Le 120 giornate di cinema)

Karl Jaspers: l'immagine e il simbolo, la trascendenza e il naufragio...

La differenza fondamentale tra i significati del mondo e i significati metafisici dipende dal rapporto dell'immagine con ciò che essa rappresenta; si tratta cioè di stabilire se il rappresentato può essere colto a sua volta come oggetto, o se l'immagine è solo immagine di qualcosa che non si può in altro modo raggiungere; se ciò che è espresso con l'immagine può essere espresso anche direttamente, o se per noi sussiste solo in quanto rappresentato dall'immagine. Solo nell'ultimo caso parliamo di simbolo in senso metafisico, ossia di qualcosa che s'ha da cogliere essenzialmente nell'immagine senza la possibilità di poterlo pensare oggettivamente. Mentre la similitudine mondana è una traduzione o una rappresentazione di qualcosa che in sé rimane sempre oggettivo, sia che lo si pensi, sia che lo si intuisca, il simbolo metafisico è l'oggettivazione di qualcosa che in sé non è oggettivo. L'inoggettivo non si offre da sé, e l'oggettività del simbolo non è pensata come quell'oggetto che è. Il simbolo non è interpretabile, esso rinvia a sua volta a un altro simbolo. Comprendere un simbolo non significa conoscerne razionalmente il significato, poterlo tradurre, ma significa poter sperimentare con la propria esistenza, nell'intuizione del simbolo, quell'incomparabile rapporto col trascendere che si avverte, al limite, nel dissolvimento dell'oggetto...

(K. Jaspers, Filosofia)

A cura di M. G. Crivella

5. L'immagine iconoclasta: Victor Erice (1992)

5. L'immagine iconoclasta: Victor Erice (1992)
La trasfigurazione dell'irrappresentabile si produce nella divaricata obliquità di forme che s'addensa tra l'immagine-velo e l'immagine-strappo. Qui la figura non è un'evocazione languente di ipotesi formali lasciate inattuate sulla soglia delle apparizioni che Erice ha deciso di espungere, ma piuttosto essa spazia e dilaga nella protratta astensione del suo venire alla luce, del suo farsi avvertibile, in una concreta delineazione di presenza. L'astanza - direbbe qui Brandi - è piena perché la flagranza si trova invischiata nel vuoto, trattenuta in esso attraverso la messa a punto di una nodosa pragmatica dell'inoggettivabile, la quale ha come controparte la dura emersione del piano stesso di oggettivabilità su cui le cose dovrebbero disporsi nel loro compromesso portato fenomenico. Erice interroga - ed ostenta - la figura non mostrandocela seccamente, ma suggerendone il corroso profilarsi sulla nuda esposizione di ciò che da sempre ne ha garantito evidenza e visibilità... (G. Crivella, Le 120 giornate di cinema)

Arte e tradizione: quella tela bianca nel processo creativo

Arte e tradizione: quella tela bianca nel processo creativo
Esiste un aneddoto leggendario che riguarda il lavoro di Emilio Vedova come insegnante presso l' Accademia di Belle Arti di Venezia. Quando un allievo si trovava paralizzato di fronte alla tela bianca, incapace di procedere, vittima dell' inibizione, il maestro interveniva immergendo uno spazzolone in un secchio di colore e imprimendo un violento colpo sulla tela. Questa offesa traumatica sortiva un effetto immediato; l' allievo liberato dall' angoscia e dall' inibizione poteva procedere nel suo lavoro. Il gesto del maestro contiene una duplice verità. La prima verità è che se l' arte, come dichiara Lacan, è una "organizzazione del vuoto", questo non significa affatto che il vuoto sia un dato di partenza per l' artista. Piuttosto si tratta di produrre il vuoto come condizione basica di ogni processo creativo. Il colpo di spazzolone che si getta con forza sulla tela immacolata cerca il vuoto, cerca l' aria, l' ossigeno. Il vuoto della tela, infatti, non è affatto vuoto. Il vuoto della tela bianca non è mai vuoto. È piuttosto sempre troppo pieno. Pieno di cosa? Di tutta la storia dell' arte, di tutte le immagini già viste nell' arte che ci ha preceduti. La tela bianca è affollata di saperi, di opere, di citazioni, di stereotipi, di ciò che è già stato fatto, visto e conosciuto. Ogni tela porta su di sé il peso di ieri. È una stratificazione invisibile di memoria. Filosofie dell' arte, standard della composizione, esperienze pittoriche, citazioni, correnti di pensiero, stili, maniere, tutto un sapere invisibile ma denso si deposita sul bianco della tela ricoprendolo di una ragnatela impercettibile che genera sudditanza e inibizione. Cosa ci insegna il colpo di spazzolone del Maestro? Se questo pieno non si svuota non c' è possibilità di creazione. È necessario un azzeramento preliminare, una sospensione, uno svuotamento di questo pieno. Nondimeno questo gesto ci mostra anche che la presenza ingombrante di segni morti non è mai un' esperienza contingente. La tela bianca è sempre piena di saperi morti, di elementi inerti, di ideali monumentali, di opere irraggiungibili. Ogni processo creativo eredita la memoria di ciò che è già avvenuto. Ma questa eredità può essere tradita nella forma della ripetizione scolastica oppure può dare vita ad un atto autenticamente creativo. Il colpo di spazzolone vuole allentare l' obbedienza del soggetto alle regole codificate della tradizione affinché qualcosa di nuovo possa venire alla luce. Per questo occorre fare il vuoto, occorre una quota necessaria di oblio, una dimenticanza, una sospensione di quel codice. La condizione di possibilità di ogni processo creativo è che vi sia vuoto. Altrimenti il soggetto resta ipnotizzato dalla tela bianca, resta trattenuto perché ogni atto sarebbe inadeguato rispetto all' Ideale della tradizione. Accade anche ai nostri studenti davanti alla propria tesi di laurea. Bisogna dimenticare quello che si è letto, quello che già si sa, occorre fare il vuoto, per provare a dire qualcosa di proprio. Per questo per Vedova essere pittore significava, come egli usava dire, essere tutti i giorni sull' orlo del precipizio, sul bordo del vuoto. (M Recalcati, La Repubblica 27/11/2011) A cura di M. G. Crivella

Dialoghi di pittura tra Olivieri e Verna

Dialoghi di pittura tra Olivieri e Verna
Mentre gli anni Settanta tramontavano, loro due - assieme, per quanto lavorassero in due diverse realtà, a Milano e a Roma; e per quanto fossero già allora molto distanti nell' animo e nel carattere, che l' uno ha tormentato e severo, l' altro conciliante e sereno - Claudio Olivieri e Claudio Verna scoprivano il valore possibile della nuova libertà che invade ora la loro pittura. Un argine allora resiste: ed è per Verna la memoria della geometria che aveva tenute avvinte in severo ordine costruttivo le sue composizioni fondate dal colore; per Olivieri, l' occupazione omogenea dello spazio, quell' inibirsi ogni orizzonte, ogni via di fuga: per giungere alla sua immagine avendo infine saturato la superficie di oscure, tetragone, quasi minacciose figure d' ombra. Si separavano insieme dal canone di una pittura che fu detta "analitica", fortemente implicata con il sentire concettuale cui pure intendeva resistere; una pittura che aveva indagato sistematicamente, enumerandoli uno per uno, i singoli atti fabbrili necessari a farla: sull' onda, anche, dell' attitudine riflessiva e minimalista che era stata alla base dell' azzeramento pittorico di Reinhardt, dando luogo ai casi, presto ben noti anche in Europa, di Noland, Kelly, Frank Stella e d' altri statunitensi. Da quegli anni e quei modi di entrambi prende oggi avvio la bella mostra che presso il Convento del Carmine di Marsala promuove la Pinacoteca Civica (a cura di Sergio Troisi; catalogo Silvana Editoriale, fino al 15 ottobre), ove i due dialogano (e non è la prima volta che Olivieri e Verna si trovano ad esporre assieme, tanto la loro pittura, senza assomigliarsi, sembra rivolgersi reciprocamente lo sguardo), esponendo ciascuno venticinque opere, fra le quali alcune recentissime, come - di Verna, e di quest' anno - Lucifer, una gran tela azzurra e grigia, punteggiata dal fitto colpeggiare del rosso che s' interna nel manto del colore di fondo, animandolo di minime tracce; o Rosso, daccapo di Olivieri, nel quale prende forma una delle figure più amate e frequentate dal pittore, quella d' una colonna di luce che s' innalza fra due spalti notturni. È una pittura, per entrambi, fondata sull' espansione e la respirazione del colore, cui è in prima istanza delegata la nascita dell' immagine. La materia ne sembra quasi esclusa: salvo tornare ad affacciarsi nelle maglie dell' acrilico dato talvolta - in Olivieri - con lo straccio gravido di colore, talvolta - in Verna- per strati da cui emerge il tono del fondo. Ancor più radicalmente, escluso vi appare il gesto largo e inconsapevole, abbandonato a sé stesso. In Verna, tuttavia, al gesto si sostituisce il segno, che si fa infine una costante della sua pittura: crepitante ovunque sulla superficie, il fitto segnare l' anima di moti dati e interrotti, di slanci e ristagni. In Olivieri, la stessa superficie s' è andata negli anni progressivamente annullando come problema linguistico: ed è rimasta come uno schermo immateriale sul quale si fissa per un attimo, fra picchi e voragini, il transito di una luce che ha sentore d' eterno. (F. D'Amico, La Repubblica 07/07/2013) A cura di M. G. Crivella

4. L'immagine iconoclasta: Valerio Zurlini (1959)

4. L'immagine iconoclasta: Valerio Zurlini (1959)
Animate da repentine scomparse e laterali accensioni le cose del mondo vorticano inattinte e ostinate nel curvo assolversi dell'uomo dall'essere per farsi ciò che egli costantemente deve sforzarsi di divenire, fuga continua da sé a sé, viscerale dissipazione o distrazione di possibilità che sembrano trovare la propria incompleta attuazione nell'attimo stesso del loro fulmineo esaurirsi. L'immaginario fende la calcificata epidermide delle cose scorgendovi al di sotto la abbacinata penombra di un esistere eruttivo ma tenue, ora prossimo a spegnersi nell'oblio dell'indistinto, ora violentemente carico di sussulti e spasmi che ribollono silenziosamente lungo il fioco verso dell'esistente... (J-M Noireaux, Le 120 giornate di cinema)

3. L'immagine iconoclasta: Ingmar Bergman (1961)

3. L'immagine iconoclasta: Ingmar Bergman (1961)
Specchiata nel dilatato occhio della follia, l'ipnotica densità del vuoto è il delicato ricamo di tenebra che informe si profila sulla parete attraverso un'ombra senza corpo... (J-M Noireaux, Le 120 giornate di cinema)

2. L'immagine iconoclasta: Peter Greenaway (1982)

2. L'immagine iconoclasta: Peter Greenaway (1982)
La traccia si iscrive nel luogo stesso di quella scomparsa che essa è chiamata a designare in forza della sua presenza piena ma rarefatta se non elusiva, campo curvo di rimandi aperti verso un orizzonte slogato di prospettive ed ipotesi che non smette di ricadere su se stesso nel medesimo istante in cui sembra già profilare una scena diversa - trascorsa o futura - d a quella in cui la traccia si sviluppa, si dipana, si svolge seconda l'obliqua dialettica di indicazione e frattura, sospensione e contrasto, riflessione e trasparenza, inversione e continuità [...]. Il segno risulta scandito secondo una semiosi che ruotando attorno ad un centro erratico di referenze e ritorni di volta in volta sembra sempre perdere uno dei vertici della triangolazione squadernando il senso del (supposto) reale lungo il trascriversi incerto di una spezzata che non raccorda più segno-senso-oggetto, ma scorre piuttosto lungo la concatenazione che essi strutturano lasciando che questi si accavallino o si scalzino di posto senza una reperibile trama di concordabilità o previsione […]; il simbolo smarrisce i termini di ogni eloquenza codificata, prosciugando la propria forza enunciativa in una formazione pletoricamente figurativa proprio perché ciecamente espressiva, così che esso non assurge più ad elemento d'ordine ma interviene piuttosto come un'enigmatica cifra di saturazione e tracollo dei significati veicolati […]; la scena - ormai assente - dell'assassinio ha smarrito ogni coordinata situabile con precisione nell'intersezione spazio-temporale degli eventi, ma non cessa di prodursi dopo la prima volta che si è manifestata, smembrata tuttavia in una sequenza pulviscolare e diffusa di riferimenti opachi nella cui sintassi non trova alcuno spazio la postulazione di una traducibiltà in grado di enunciare senza alcun residuo di senso la verità di quanto sembra essersi verificato [...]. La distanza logica tra apparire e sembrare diventa infinitesima; l'intervallo che scorre tra di essi non separa più, ma contrae e condensa due stati di cose in un'oscillazione incrociata che li rende perfettamente coincidenti proprio perché irriducibilmente opposti [...]. Siamo sempre ad un passo da Gombrowicz, forse... (J-M Noireaux, Le 120 giornate di cinema)

Cacciari: illatenza e memoria

Dove giunge la «capacitas» della memoria, perché la sua forza ci sembri così 'eccessiva' rispetto a ogni logos, come la psyché eraclitea (e proprio della psyché l'anima è massima potenza)? «Chi può raggiungerne il fondo?» (Agostino, Conf. X, 8, 15). Ab-grund, perciò, la memoria, e tuttavia «ad meam naturam pertinet»; di fronte ad essa riconosco, infine, che non posso comprehendere tutto ciò che io stesso sono: «nec ego ipse capio totum, qud sum» (loc. cit.). Come vede, rovina l'Anulus: al fondo della memoria raggiungo il non-fondo dell'anima. E rovina altresì il semplice movimento da Lethe ad Aletheia, come da tenebre a sempre più luce: ciò che si 'produce' alla luce è il mistero dell'anima che, procedendo instancabilmente nel ricordo-di-sé, nella Erinnerung, nello sprofondare in se stessa, sempre più 'chiaramente' comprende di non potersi comprehendere. E questo 'non' riconosce come propria natura...

(M. Cacciari, Dell'Inizio)

A cura di M. G. Crivella

1. L'immagine iconoclasta: Andrzej Wajda (1958)

1. L'immagine iconoclasta: Andrzej Wajda (1958)
Il visuale è allora «le champ-aveugle» d'ogni percezione, ove dal «savoir sans voir» si passa al «voir sans savoir» ed ove il verso del visibile erompe dissolvendo ogni logica precostituita, facendo sì che la torpida trasparenza iconica s'offuschi in una sorta di εκφρασις infinita e intensiva, reticolare e aporetica, nodo d'una «visibilté flottante» molto simile a ciò che già Deleuze – in un suo studio degli anni Ottanta dedicato a Bacon – aveva definito germe-caos, indicando con questa espressione quella forza che, dilagando all'interno della concentrica cecità delle cose aperte senza sosta sul proprio infinito contrarsi e come cristallizzate in una presenza indeclinabile e ostile, è in grado di spingere la realtà oltre il limite umano del visibile per farlo deflagrare in un brillante e confuso pulviscolo di visioni e versioni che ne compromettono la saldezza, ne cariano la tenuta portandola quasi fino ai paraggi opachi del sogno..." (G. Crivella, "Per inane soluta". Didi-Huberman e le eterotopie dell'immagine)

Th. W. Adorno (T. Pericoli, I ritratti)

Th. W. Adorno (T. Pericoli, I ritratti)
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