Crivella Giuseppe
Scrive
Dylan Thomas alla fine di uno dei suoi più noti racconti giovanili,
intitolato Nella direzione del principio:
Di chi era l'immagine del vento, l'impronta sullo
scoglio, l'eco che chiedeva una risposta? Essa era aurea e
anguicrinita. Si muoveva nel campo salato, ingoiante, al storia e le
rocce, le oscure anatomie, lo stesso mare ancorato. Infuriava
nell'utero infecondo […]. Egli vide la reietta immagine disegnata
con un piede d'incubo intinta nel veleno e incorniciata dal vento,
impronta del pollice che lei affondò sulla mano come un'ombra
palmata, interrogazione dell'eco […]. Una voce quella sera traversò
la luce e le onde, una forma assunse i mutevoli umori, da dove la
cantaride marina verde-oro tinge lo strascico del polpo una virulenza
strisciò attraverso la spuma, e dai quattro angoli della mappa un
cherubino nella forma di un'isola soffiò le nuvole verso il mare
[1].
Per
entrare nella dizione lirica di Dylan Thomas è necessario
sforzarsi di immaginare la vitrea porosità di un vuoto stillante il
deserto crepitare di forme senza nome: un violento impeto alla
contorsione, un grumoso serto di avvolgimenti ritmicamente astratti,
giustapposti l'uno all'altro a formare l'ordinata trina lungo l'orlo
di un delicato merletto, al cui centro però è giunto a depositarsi
qualcosa di infestante, forse di diabolico. E ancora, si pensi allo
schiudersi appena accennato di bocche consumate, nel cui soffocante
sibilo è il contatto profondo con l'estrema squama di un silenzio
figurato nelle viscide sinuosità di un serpente di cui sia
invisibile il capo. Un infittirsi filamentoso di mani, dita, unghie
che si strappano senza posa da un corpo comune, lanciate nel buio
come gelide comete per cercare di afferrare, o anche solo
accarezzare, le ultime propaggini dell'essere, ma al tempo stesso
metamorfosate in fiori, i cui petali sono lembi di sudari sporchi,
nere schegge di pianto, pagine lacere e frammenti di ossa.
![]() |
| Dylan Thomas |
È così
che al nisus imaginativus [2]
di Dylan
Thomas non è possibile porre argine, sovrapporre vagli di codici,
imporre disciplina interna. Per lui, evocare la cosa è produrla in
una assediante scintillazione di corpi informi, figure
dell'irrappresentabile e friabili corone di echi visionari, al cui
immoto marasma di ramificazione semi-organiche è impossibile
sottrarsi.
Out
of a war of wits, when folly of wods
Was
the world's to me, and syllables
Fell
hard as whips on an old wound,
My
brain came crying into the fresh light,
Called
for confessor but there was none
To
purge after the wit's fight,
And
I was struck dumb by the sun.
Praise
that my body be whole, I've limbs,
Not
stumps, after the hour of battle,
For
the body's brittle and the skin's white.
Praise
thet only th wits are hurt after the wit's fight [3].
Siamo
dinanzi ad una eruzione graduale di nessi riposti, segreti, appena
intravisti seppur tenaci o pressoché infrangibili per quanto
inaspettati: non assicurati da alcun vincolo di somiglianza o
manifesta inerenza reciproca, essi rispondono unicamente alle leggi
ferree ed aberranti di una ghirlanda analogica perspicua solo alla
voyance del
poeta, che raccorda intreccia declina apparizioni di mondo secondo le
linee spiraliformi di una siris
infinita.
Fermiamoci
pertanto un attimo alla immagine della spirale appena evocata: essa
non va intesa qui come la regolare figura geometrica, ma piuttosto
come il corpo di un aspide strettamente avvolto su se stesso,
attraversato da un fremere sottile e continuo; tale aspide-spirale,
al nostro minimo segno di avvicinamento prende a muoversi, scatta
verso di noi, per rinserrarsi poi subito diventando un blocco
compatto, un nero segno di minaccia e terrore posato accanto alle
nostre mani, abbandonato davanti ai nostri passi, remoto e
incombente. Ma sia che si svolga, sia che si rinserri, tale spirale
va pensata anche come un rutilante interfoliarsi di fuochi
immaginifici, nelle cui congestionate espressioni il reale è
trasfigurato nelle risonanze emesse da una dolorante conchiglia
verbale, nel cui incavo madreperlaceo l'odore stesso della salsedine
da cui proviene colpisce il lettore con una sgargiante raffica di
immagini: cupole e aironi, schiume ed albe, lingue in sfacelo e
rintocchi di Angelus, nel cui sfocato allinearsi esso si fa crampo
intrappolato dall'immortale grido della rugiada:
Night
in the sockets round,
Like
some pitch moon, the limit of the globes;
Day
lights the bone;
Where
no cold is, the skinning gales unpin
The
winter's robes;
The
film of spring is hanging from the lids.
Light
breaks on secret lots,
On
tips of thought where thoughts smell in the rain;
When
logics die,
The
secret of the soil grows through the eye,
And
blood jumps in the sun;
Above
the waste allotments the dawn halts [4].
Il
linguaggio di Dylan Thomas si fa carico di una inventività
disperante e dilaniata, indomita, corposa e precipite, forgiata in un
dinamismo plastico pari forse solo ad alcuni componimenti dell'ultimo
Rimbaud. In lui l'abnorme e l'irrelato scandiscono diffusamente il
plasmarsi multiplo di astrali architetture visionarie, nelle cui
contratte calamitazioni a distanza viene ad essere trascritto un
cifrarsi nebuloso di segni ed oggetti trasvalutati nei loro portati
di senso.
Si
prenda ad esempio la dimensione equorea, così ricorrente nella prima
produzione del grande poeta gallese: essa ritorna sempre
contrassegnata dalla icasticità della forza primordiale; essa chiama
in causa e coordina per effrazioni reciproche tutte le
contraddittorie sfaccettature che a quella appartengono, ma che
raramente vengono esplicitate e “attivate” contestualmente. Lo
scenario marino è sempre un paesaggio di palpitazioni primigenie –
spesso molto affine alla spiaggia che attraversa e contempla Stephen
Dedalus nel capitolo dell'Ulysses
ispirato a Proteo [5]– in cui l'uomo non è ancora pienamente
presente, ma solo alluso adombrato, e forse escluso, da un gioco di
possibilità organiche che scorrono ardenti nelle vene della terra:
I
dreamed my genesis in sweet of sleep, breaking
Through
the rotating shell, strong
As
motor muscle on the drill, driving
Through
vision and the girdered nerve.
From
limbs that had the measure of the worm, shuffled
Off
from the creasing flesh, filed
Through
all the irons in the grass, metal
of
suns in the man melting night
[…]
I
dreamed my genesis and died again, shrapnel
Rammed
in the marcing heart, hole
In
the stitched wound and clotted wind, muzzled
Death
on the mouth that ate the gas.
Sharp
in my second death I marked the hills, harvest
Of
hemlock and the blades, rust
My
blood upon the tempered dead, forcing
My
second struggling from the grass [6].
Una
circolazione febbrile e sottile di schegge e detriti – pastose
recrudescenze dell'informe – si mette in moto, invadendo lo spazio
della visione dalla fissità della luna alle ben irrorate membra di
alberi e piante; ma in questa circolazione v'è sempre qualcosa che
improvvisamente blocca, paralizza e arresta il corso delle cose, le
trasforma oscuramente in sembianti d'altro, le allontana dal loro
lucus
generativo, elevandole su di un piano di significazione che ostruisce
e impossibilita la scorrevolezza della vita naturale. Il pensiero e
la parola dell'uomo dilagano con la foga corrosiva di una
contaminazione inarrestabile. Ed è proprio in questo momento che
nasce la poesia di Dylan Thomas: in essa tutto ciò che tenderebbe a
cristallizzarsi in simbolo o testimonianza del passaggio deformante
dell'uomo, viene delicatamente degradato a mera effervescenza
simulacrale, deposito segnico stremato ed esautorato d'ogni rimando
semantico, e quindi riassorbito un in intrico immemoriale di immagini
pure assolute, le quali non smettono di inoltrarsi nella cavernosa
sonnolenza di ciò che è anteriore all'umano: midolla schiumanti
soffiate sul sole, squame di testuggini diventate linfe che
percorrono arterie di cristalli, teschi covati dal mare e naufragi di
tendini invischiati nelle cortecce dei giunchi. È così che la
poesia diventa liturgia dell'alogico, chiamata a celebrare il cerchio
bollente dei tempi in gestazione; e solo in tal senso è possibile
parlare con cognizione di causa di imagery,
intendendo quell'ancestrale afflato panico che, con nozione desunta
da note pagine kantiane [7], potremmo definire anche
Einbildungskraft,
a designare quella intensa forma di eidetismo
[8] che si
nutre di immagini dialettiche calate in un processo di ecolalia
differita del visibile. L'immagine è satura di una endogena tensione
sussultoria; da essa uno screziato mulinare di frantumi irradia
proiezioni di mondi destinati ad essere sopraffatti dal verminoso
intrudersi dell'eternità nelle fibre tenui e cedevoli del tempo,
vissuto qui come una ferita sacra da cui il passato stilli con la
tremante pace di una nuvola. Anche per il gran gallese possono valere
senza dubbio pertanto le splendide e pentranti analisi che Bonnefoy
dedica alla poesia di Pierre-Albert Jourdan:
les mots, les quelques
mots de la poésie [di Dylan Thomas] sont bien tournés, la plupart,
vers l'au-delà de leur capacité ordinaire – celle qui s'en tient
à l'idée qu'il dirait grise, à ,l'image qui flambe faux à la
sortie du sommeil – et autant qu'il le peut il cherche à dégager
sa parole, maintenue au plus près d'une perception purement sensible
[…]. Son attention recherche la chose que sa notion n'a pas encore
atténuée, la couleur ou l'odeur qu'aucun adjectif n'a compromises,
l'évidence qui le dissuade de continuer de parler. D'où un
rayonnement, dans ses pages, qu'il semble qu'on pourrait dire, sans
chercher plus le recommencement, le retour de la réalité naturelle
en son être
propre, qu'un emlpoi comme silencieux des mots dégagerait d'une
brume, découvrant des correspondences que nos langues savaient
peut-être,
mais que le concept a perdu [9].
La
poesia di Dylan Thomas nasce da un folle rogo di visioni venute a
librarsi davanti all'inquieta voyance
del poeta attraverso una ottenebrante chiarità di nomi rescissi
dalla inerzia delle cose. La parola non designa, non nomina, non
significa: il linguaggio quindi non viene trasceso verso la
decantazione pura di un metalinguaggio perfetto e trasparente a se
stesso, ma s'abbassa verso una sfera transverbale in cui il
significante è come portato ad annichilirsi, mettendo il concetto a
diretto contatto con la bruciante superficie delle cose. La poesia
sorge come il portato alchemico di questa combustione
dell'immateriale nella corteccia fibrillante del sensibile, divenuto
lingua in grado di proferire se stesso: esemplare in tal senso è una
delle liriche più note del gran gallese Especially
when the october wind,
nel corso della quale una turbinosa trama isotopica di termini
afferenti alla dimensione propriamente linguistica si innesta su una
serie di presenze naturali che sembrano voler “alienare” la
parola umana, sradicandola dalla sua essenziale ma anche frustrante
appartenenza alla sfera di matrici semantiche codificate ed
ossificate (syllabic blood,
tower of the words,
wordy shapes,
the spider-tongued,
the dark-vowelled birds [10]):
Especially
when the october wind
With
frosty fingers punishes my hair,
Caught
by the crabbing sun I walk on fire
And
cast a shadow crab upon the land,
By
the sea's side, hearing the noise of birds,
Hearing
the raven cough in winter sticks,
My
busy heart who shudders as she talks
Sheds
the syllabic blood and drains her words
Shut,
too, in a tower of words, I mark
On
the horizon walking like the trees
The
wordy shapes of women, and the rows
Of
the stat-gestured children in the park.
Some
let me make you of the vowelled beeches,
Some
of the oaken voices, from the roots
Of
many a thorny shire tell you notes,
Some
let me make you of the water's speeches [11].
La
parola plurale della lirica attraversa e sonda questa finitudine,
trascrivendone le riposte potenzialità semantiche in una ardita
intelaiatura di armoniche mentali, nel cui concentrico ripercuotersi
a latitudini infinite un trascolorante mosaico di folgorazioni
colpisce la sensibilità stessa del poeta adulterandola nel luogo di
una stordita turbolenza disseminativa dalla quale il segno e la cosa
riemergono sempre coi segni reciprocamente scambiati. Da
qui spire psichiche si distendono a forgiare nuovi paesaggi di
simboli. Il vettore analogico adesso però non è diretto dal
principio delle affinità formali tra gli elementi messi in gioco;
piuttosto esso procede per contrasti e conflitti figurali,
accoppiamenti di immagini remotissime declinate attraverso una
allegorizzazione perpetuamente riverberata lungo direttrici di
significanza aperte alle più controverse traversie dell'immaginario.
È quindi un crudele sortilegio scompositivo quello che regge tutta
la poetica del gran gallese. Se infatti il cosiddetto objective
correlative di Eliot ha il compito precipuo di stabilire
una linea di derivazione condizionante tra due dati solo
apparentemente irrelati – noto è l'esempio dell'acqua e della
terra per il cavolo, e dello stesso cavolo per le emozioni che esso
inevitabilmente suscita, così che «the
only way of expressing emotion in the form of art is by finding an
'objective correlative'; in other words, a set of objects, a
situation, a chain of events which shall be the formula of that
particular emotion»
[12] – in Dylan Thomas avviene
qualcosa di assolutamente diverso: i campi associativi vengono
schiacciati senza preavviso e senza mediazione l'uno sull'altro, in
una coincidenza forzosa e implosiva, mediante la quale si trova ad
essere espulso dalla poesia di Thomas tutto il pulviscolo emozionale
che in Eliot garantiva la continuità tra le due figure nonché la
legittimità del nesso, attivando invece una sorta di vertiginosa
relazione circolare tra le immagini così che la commistione di umano
e animale, di equoreo e celeste, di terragno ed aereo crea una
dimensione fluida di trasmutazioni continue e inesorabili:
Fishermen
of mermen
Creep and harp
on the tide, sinking their charmed, bent pin
With bridebait
of gold bread, I with a living skein,
Tongue and ear
in the thread, angle the temple-bound
Curl-locked and
animal cavepools of spells and bone,
Trace out a
tentacle,
Nailed with an
open eye, in the bowl of wounds and weed
To clasp my
fury on ground
And clap its
great bllod down;
Never shall
beast be born to atlas the few seas
Or poise the
day on a horn [13].
La
parola poetica deve per forza di cose deragliare verso forme
allotrope di sensibilità, le percezioni adulterarsi come se le
terminazioni nervose dell'uomo fossero state innestate su di un
reticolo cerebrale in cui vengono a inscriversi la vibratilità
infinitesima della medusa, le oscillazioni di petali e stami, la
fredda desertificazione dei mari lunari, le lente danze dei polpi.
Dell'objective
correlative di
Eliot rimane solo la correlazione immensa, illimitata, puntiforme ed
amorfa di tutto con tutto, in una sorta di panpsichismo che trasforma
il respiro umano in una pioggia scintillante d'ali involate verso
l'indaco del cielo racchiuso nella capsula lucente di un ranuncolo.
Dylan Thomas mette in atto una sofisticata rabdomanzia figurale che
arriva a liquefare la presenza del reale in una soffusa geminazione
di immagini poste sempre in corrispondenza sulla base della loro
costitutiva antinomicità, ma proprio per questo sottilmente
attrattive l'una dell'altra: in questa ricca fluttuazione di segni
riportati sempre al loro statuto di raffigurazioni concrete il
linguaggio pulsa in lunghi squarci d'apparizioni sconnesse vorticanti
attorno all'impreciso affiorare di poli analogici che attraversano
tutta la lunghezza dei componimenti. Un sobbollimento impervio ma
tenace si placa allora in un assestamento carico di conflittuali
dinamiche interne, supremamente trattenute però dalle ferree
soluzioni ritmico-prosodiche trovate dal gran gallese.
![]() |
| Th. S. Eliot |
Si
vedano ad esempio le liriche a rombo, scritte cioè in modo che dal
vertice superiore al centro della figura un elemento grammaticale
occupi sempre il verso secondo la lunghezza crescente dello spazio
disponibile – da una sola parola ad una intera frase – così che
il punto mediano della losanga diventa simultaneamente la zona di
rovesciamento speculare di tutta la lirica, la quale, se nella
disposizione dei versi inizia a decrescere, nel discorso lirico
prende ad avviarsi verso una chiusa folgorante e perentoria, come
accade in modo magistrale in The/
Born sea
[14]. Si tratta di uno schema che trova il proprio contrappunto nei
componimenti a clessidra, ove, capovolgendo lo schema dei precedenti
– nei Collected
poems
del '52 questi seguono immediatamente quelli a rombo – sono il
primo e l'ultimo verso ad occupare la massima estensione, mentre il
centro si contrae in un unica parola attorno alla quale far ruotare
lo sviluppo di tutta la lirica, come avviene in That
he let the dead lie though they moan
[15], in cui Rock
(Roccia) costituisce il momento di transizione dalla prima metà
della lirica – dedicata alla descrizione della condizione dei morti
evocati nel primo verso – alla seconda, in cui si accavallano
immagini di movimento e caduta, in parte a contestare, in parte a
rafforzare quelle immediatamente precedenti, quasi a voler comprimere
nelle sorvegliate e contrattili architetture del verso la misura
aurea della divina sproporzione tra la cosa e il segno, l'idea e il
linguaggio, il concetto e l'immagine.
I
segni verbali qui diventano emblemi condotti perversamente al loro
stato più intenso di crisi, diffrazione e dissolvimento, fino ad
assumere il ruolo di controfigure della coscienza, dell'io lirico che
non unifica, non accentra, non circonda le cose comprimendole nelle
fredde regioni del dicibile ma, simile alla vibrazione di un oggetto
dimenticato, si apre ad una eccentricità predicativa il cui
incontenibile éclat
assorbe ogni stato dell'immaginario. Probabilmente nessuno ha
delineato con maggior acume critico di Piero Bigongiari – in saggio
del '69 dedicato a Yves Bonnefoy – questo metodo, che porta l'io a
confondersi con un indifferenziato elementare, da cui eruzioni di
simboli in decomposizione si susseguono col ritmo alterno di una
distruzione creatrice:
[siamo
di fronte a] una totale designificazione della figura che in tale
processo riduttivo dei segni verso il significato attinge i suoi
culmini metamorfici, cioè appunto il processo induttivo del
significato verso tutti i significabili compresi in quel sistema
segnico messo in atto dalla finitudine dell'immagine [16].
La
finitudine dell'immagine,
esibita nelle disarticolanti sinossi figurali di sistemi segnici
ormai sprovvisti di uno statuto linguistico dominante, non trascrive
e non traduce più nulla; piuttoto essa diventa una ferita in seno
alla quale gli oggetti stessi si contraddicono e contraddicono la
loro irrecuperabile e altrimenti impronunciabile oggettività;
tramite essa fisionomie al tempo stesso astrali e telluriche fiottano
nei precordi stessi della materia, fattasi turbinoso specchio nel cui
diffuso punto cieco è possibile cogliere il puro tremore di immagini
che diventano visione:
I,
in my intricate image, stride on two levels,
Forged in man's
minerals, the brassy orator
Laying my ghost in
metal,
The scales of this
twin world tread on the double
[...]
Image
of images, my metal phantom
Forcing forth
through the harebell,
My man of leaves and
the bronze root, mortal, unmortal,
I, in my fusion of
rose an male motion,
Create this twin
miracle [17].
![]() |
| Piero Bigongiari |
Note
1.
D. Thomas, Poesie
e racconti,
a cura di A. Marianni, Einaudi, Torino, 1996, p. 574-575.
2.
Con questa formula ci riferiamo qui a G. Steiner, Grammatiche
della creazione,
Garzanti, Milano, 2003, soprattutto pp. 243-258.
3.
D. Thomas, Op
cit.,
p. 394. Uscendo da una guerra di acutezze,/ Quando la follia delle
parole/ Era per me quella del mondo, e le sillabe/ Si abbattevano
come staffili su una vecchia ferita,/ Il mio cervello entrò urlando
dentro la fresca luce,/ Chiamai un confessore ma non c'era/ Che mi
assolvesse dopo quella lotta,/ E fui ammutito dal sole./ Sia lode al
cielo che il mio corpo è integro./ Ho membra, non moncherini, dopo
quella battaglia,/ Perché fragile è il corpo e bianca è la pelle;/
Lode al cielo che solo il senno è ferito/ Dopo una guerra d'arguzie.
4.
Ivi,
pp. 26-28. La luce nelle orbite contorna,/ Luna di pece, il limite
dei globi;/ Il giorno illumina l'osso;/ Dove non fa mai freddo, la
raffica che spella/ Slaccia le vesti dell'inverno;/ La membrana
primaverile dalle palpebre pende.// La luce appare su segreti
appezzamenti,/ Sugli scarti del pensiero dove i pensieri esalano alla
pioggia;/ Quando le logiche muoiono,/ Il segreto del suolo cresce
attraverso l'occhio/ E il sangue balza nel sole;/ Sopra i terreni
esausti l'alba arresta il suo corso.
5.
J. Joyce, Ulisse,
ed it a cura di G. De Angelis, Mondadori, Milano, 1999, pp. 38-53.
6.
D. Thomas, Op.
cit.,
p. 30. Sognai la mia genesi nel sudore del sonno, rompendo/ Il guscio
rotante, potente come il muscolo/ D'un motore sul trapano,
inoltrandomi/ nella visione e nel nervo travato.// Da membra fatte a
misura del verme, sbarazzato/ Dalla carne grinzosa, limato/ Da tutti
i ferri dell'erba, metallo/ Di soli nella notte che gli uomini fonde
[...].// Sognai la mia genesi e di nuovo morii, shrapnel/ Conficcato
nel cuore in marcia, strappo/ Nella ferita ricucita e vento
coagulato, morte/ Con museruola sulla bocca che ingoiò gas.//
Scaltrito nella mia seconda morte contrassegnai le alture,/ Messe di
lame e di cicuta, ruggine/ Il mio sangue sui morti temprati,
forzando/ La mia seconda lotta per strapparmi dall'erba.
7.
I. Kant, Critica
della facoltà di giudizio,
ed it a cura di A. Gargiulo e P. D'angelo, Laterza, Roma, 2005,
soprattutto la Nota prima riferita alla soluzione dell'antinomia del
gusto, in cui si affronta il problema dell'idea estetica come
inexponible
Vosrtellung,
pp. 365-378.
8.
G. Celati, Finzioni
occidentali,
Einaudi, Torino, 1975, p. 199.
9.
Y. Bonnefoy, La Vérité de parole, Gallimard, Paris, 1988, p. 312.
In effetti tutto il saggio può benissimo essere letto come una
riflessione perfettamente aderente alla poetica di Dylan Thomas, a
cominciare dal titolo che evoca in un allineamento significativamente
paratattico e asindetico i quattro dati portantia attorno a cui
orbita tutta la sua lirica: les
mots, les noms, la nature, la terre,
cfr pp. 311-323.
10.
D. Thomas, Op.
cit.,
pp 22-24.
11.
Ibidem,
p. 23. Specialmente se il vento d'ottobre/ Con dita gelate punisce i
miei capelli,/Artigliato dal sole cammino sulle fiamme/E getto un
granchio d'ombra sulla terra,/ In riva al mare, udendo il chiasso
degli uccelli/ Il cuore indaffarato che trema se lei parla/ Sparge
sangue sillabico, drena le sue parole.// Rinchiuso in una torre di
parole,/ Traccio sull'orizzonte che cammina con gli alberi/ Verbali
forme di donne e le file/ Dei bimbi nel parco che hanno gesti di
stella./ Fatemi farvene alcune con vocali di faggi,/ Alcune con voci
di quercia, dirvi note/ Dalle radici di molte spinose contee./ Fatemi
farvene alcune con discorsi dell'acqua.
12.
Th. S. Eliot, The
sacred wood, essays on poetry and criticism,
Barnes & Noble, NY, 1966, p. 34.
13.
D. Thomas, Op. cit., p. 100-102, I
pescatori di tritoni strisciano e arpeggiano/ Sulla marea, tuffando
il loro magico spillo ricurvo/ Innescato con aurea mollica; io con
una viva matassa,/ Lingua e orecchio nel filo, pesco nel pozzo/
Dell'animale caverna d'incantesimi e d'osso fasciata/ Chiusa da
riccioli e tempie,/ Scopro un tentacolo, afferrato/ Con l'occhio
aperto, nella scodella di piaghe ed erbacce/ Per stringere al suolo
la mia furia/ E abbattere il suo nobile sangue./ Mai bestia nascerà
a segnar nell'atlante i pochi mari/ O a soppesare il giorno sopra un
corno.
14.
Ivi,
p. 194.
15.
Ivi,
p. 200.
16.
P. Bigongiari, La
poesia come funzione simbolica del linguaggio,
Rizzoli, Milano, 1972, p. 287.
17.
D. Thomas, Op.
cit.,
p. 34. Io,
nella mia immagine intricata, avanzo su due piani,/ Forgiato con
minerali d'uomo, oratore d'ottone,/ Depongo il mio spettro nel
metallo,/ Mi bilancio sui due piatti di questo mondo gemino.[...]//
Immagine di immagini, mio fantasma di metallo/ Che urge attraverso il
convolvolo,/ Mio uomo di foglie e di radice di bronzo, mortale,
immortale,/ Io, fusione di rosa e maschio impeto,/ Creo
questo miracolo gemello.


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