Sovente nel leggere Kafka si è assaliti dall'oscura certezza che tutta la sua affilatissima prosa sia spasmodicamente attraversata da una sorta di sordo e multiforme dramma esegetico. Dramma qui è da intendere nell'accezione strettamente etimologica: azione, attività (scenica). Si tratta forse di un fare ermeneutico composto di spostamenti repentini ed obliqui dal centro ai margini del testo, dietro la pressione di un'osservazione nella quale sembra essersi depositata una folgorazione d'assoluto già prossima a svanire. Oppure a succedersi sono vagli e abbagli desultori di frantumate verità, ora tenebrosamente tetragone ora spettralmente elusive; sprofondamenti ed emersioni incardinati l'uno sull'altra da una perversa logica di sinonimia deviante, così che quando si crede di scendere in profondità il pensiero in realtà rasenta il culmine massimo di una illuminazione raggelante e afasica, mentre il concetto di vetta rima sinistramente con quello di abisso.
Un
dramma in sostanza perfettamente interpretato dal quell'infausta e
inesausta agitazione che angustia il protagonista de La
tana [1] (il
titolo originale è però der Bau,
che potrebbe anche significare soltanto /la costruzione/), uno degli
ultimi racconti di Kafka, scritto infatti tra il 1923 e il 1924,
definito, forse proprio per questo, da Calasso ciò che più si
avvicina a uno scritto testamentario
[2]. Una
soffusa e nodosa strategia d'allontanamento da sé è ciò che
scandisce e dirige i movimenti di questa strana creatura – una
delle tante che popolano il ricchissimo e polimorfo bestiario proprio
dello scrittore praghese – a metà tra una talpa goffamente dedita
ad un freddo raziocinare abnorme e inconcludente e uno di quei
decrepiti funzionari, che affollano le penombre degli uffici, dei
tribunali, della cancellerie della catacombale burocrazia kafkiana.
Sia i due K., sia la talpa-funzionario infatti si dibattono
follemente per depistare delle figure umbratili e vischiose, le quali
per un imperscrutabile disegno sono chiamati ad osteggiare i loro
progetti, per quanto modesti questi possano essere. Ma tale
depistaggio, perseguito in ogni caso con una minuzia maniacale,
progettato con una disumana lucidità analitica, sembra tradursi in
un accerchiamento paradossale e inflessibile che il personaggio porta
a termine unicamente ai propri danni.
Si
prenda a titolo d'esempio la talpa-funzionario: tutta la sequela di
spostamenti programmati e poi disattesi, tutte le sue deviazioni,
tutto l'infinito rosario di false piste, tutti i trabocchetti che
essa dissemina dietro – e, per forza di cose, anche davanti a sé –
d'improvviso si illuminano d'una luce estranea, alienante, e
diventano tracce inoppugnabili del suo passaggio, indizi irrefutabili
della sua minacciata presenza, segni espliciti lasciati ad uno
scaltrito inseguitore, a cui non resta che seguirli per piombare
sulla povera preda [3]. Pertanto, per confondere tale inseguitore, la
talpa-funzionario deve progettare una tana che sia trappola per se
stessa, in modo tale che anche il predatore che si muova sui suoi
passi, vi si senta messo a rischio. A questo punto però s'offusca
dolorosamente il disegno d'una controffensiva ragionata.
R. Calasso |
Un
percorso di contaminazione tra l'angoscia e l'astuzia, la congettura
e il reale, la paranoia e il pericolo effettivo infetta la totalità
della tana, traducendola in uno spazio sdoppiato di gesti e segni
tortuosamente anfibolici: essa è percorsa una prima volta al fine di
seminare e confondere il presunto predatore; in un secondo momento
essa viene attraversata nuovamente a contrario, attuando delle
precise contromosse che non solo servono a déjouer
gli stratagemmi del primo passaggio, ma trasfigurano perversamente la
talpa-funzionario nella nebulosa controfigura di un ipotetico
inseguitore, il quale si trovi simultaneamente ad abitare la propria
tana come un luogo tempestato di trappole e ad affrontare queste
stesse trappole come gli unici espedienti in grado di garantire
l'inaccessibilità della propria tana ad eventuali creature estranee.
È
ancora Calasso a far notare che questa ambiguità intrinseca
presente nel
racconto in esame è rafforzata dal fatto che in tedesco sono due le
parole incaricate di significare /tana/, Höhle
e Bau [4]:
la prima indica una cavità, una caverna, una sorta di apertura
praticata nella materia inerte a ricavarvi uno spazio vuoto; la
seconda invece designa un'operazione fabbrile di articolazione e
organizzazione dello spazio, un processo di strutturazione minuta e
ben congegnata a partire proprio dalla Höhle.
Pertanto non si dà Bau
senza Höhle,
ma al tempo stesso la Höhle
non ha senso
se non è messa in uso dalla distribuzione interna attuata dal Bau.
Ma
in Kafka la netta continuità dei due campi semantici improvvisamente
è contestata, turbata, stravolta. La costruzione occlude e dissipa
lo spazio dell'apertura: in essa non si dà mai un ambito di
transito, ma tutto è perfettamente progettato perché i passaggi
diventino ostacoli. Kafka fa giocare perversamente Bau
contro Höhle,
così che là dove ci aspetteremmo di trovare un sistema di
significati congruente con un'accezione euforica della nozione di
tana, improvvisamente siamo messi di fronte a tutta una isotopia
disforica, in forza della quale la tana diventa una costruzione
parallela ed equivalente a tutto un campionario di luoghi negativi
tipici della narrativa kafkiana: la stanza di Samsa (a sua volta
emblema della
famiglia in cui è intrappolato), la macchina torturatrice de In
der
Strafkolonie,
fino ad arrivare al villaggio labirinticamente lineare in cui
l'agrimensore K. lascia le tracce ignobili della sua inutile
presenza, nonché agli spazi in cui Josef K cerca di dipanare il
groviglio della propria innocenza facendole assumere sempre più i
tratti di una colpa inammissibile e inespiabile.
V. Adami, Ritratto di Walter Benjamin |
Quello
che avviene tra Bau
e Höhle
è una sorta di radicale
dimidiamento semantico che in altri contesti arriva a colpire anche
oggetti e segni, gesti e intenzioni; probabilmente nessuno meglio di
Walter Benjamin ha illustrato questo aspetto della concezione
dell'autore praghese, notando appunto come «tutta
l'opera di Kafka rappresenta un codice di gesti che non hanno già a
priori un chiaro significato simbolico per l'autore, ma sono
piuttosto interrogati a riguardo in ordinamenti e combinazioni sempre
nuovi […]. I gesti dei personaggi di Kafka sono troppo forti per il
loro ambiente, e irrompono in uno spazio più vasto» [5]. Questo
spazio più vasto è quello in cui alligna l'ambivalenza dei sensi,
la quale imbeve ogni cosa.
La
talpa-funzionario non può allora non mettere in campo una batteria
di soluzioni rapidamente deperibili, un'ostinata metodologia del
colpo a vuoto, un'ermeneutica della postulazione fallace. Nel
racconto der
Bau
quindi ripercorrere a ritroso i medesimi tracciati porta allo
smarrimento, alla confusione, alla più scompaginata incertezza. Dice
Calasso a questo proposito: «[der
Bau]
è un'unica colata di parole, nelle ultime pagine priva di capoversi,
che si interrompe all'inizio di una proposizione relativa. Ma secondo
il principio animatore del testo, il narratore saprebbe continuare
indefinitamente a narrare. Un solo essere può interromperlo: la sua
controparte tenebrosa, se per avventura uscisse da un'esistenza
soltanto acustica, cessando di scavare nella tana come fosse la
propria per mostrarsi muso a muso. O altrimenti quell'essere
indefinito e persecutorio potrebbe anche dileguarsi, sostituito da
un'altra ipotesi e altre inquietudini»
[6].
Ecco
che allora forse der
Bau
diventa una perfetta metafora del testo [7], o meglio, di quella
particolarissima pragmatica del testo che Kafka ha messo a punto con
la sua narrativa: attraversata due o più volte, solcata dalla
lettura innumerevoli volte – esattamente come la talpa-funzionario
passa e ripassa per i suoi stretti e franosi cunicoli un numero
incalcolabile di volte – la sfera dei significati diventa il
friabile teatro di continui smottamenti interpretativi. I sensi
delirano nel grigio propagginarsi di figurazioni parziali e
sfuggenti, le quali finiscono col depositarsi negli anfratti del
pensiero, incancrenendovi sotto forma di versioni aberranti che si
accavallano alla narrazione, si sovrappongono ad essa finendo col
soffocarla o col corroderla. Siamo così tornati al dramma esegetico
incontrato all'inizio: in esso sembra precipitare ogni frontiera tra
la quinta narrativa e il proscenio ermeneutico. Tutto assume al tempo
stesso il carattere di traccia e il carattere di chiave [8], sebbene
la loro presenza, già diafana, divenga a poco a poco solo
indiziaria.
Se
da una parte quindi in Kafka tutto è pieno di senso, dall'altra ogni
cosa è insaturabile dall'interpretazione, la quale non può infine
non pietrificarsi in un silenzio minerale. Nella propria evidenza
polverosa e spettrale tutto rimanda in modo estraniante e estenuato
ad altro, ma questo altro è la parvenza estrema che le cose lasciano
prima del loro svanire, schiantate dalla impercettibile e mostruosa
irruzione dell'infinito in esse. In Kafka dunque pervenire –
tornare? – all'assoluto non significa giungere alla contemplazione
di una presunta integrità originaria, ma piuttosto ferirsi a morte
attraversando un ordinatissimo paesaggio di abbacinate rovine.
NOTE
1.
F. Kafka, Tutti
i racconti,
a cura di Giulio Raio, NET, Roma, 1988, pp. 337-358.
2.
R. Calasso, K.,
Adelphi, Milano, 2005, p. 179.
3.
F. Kafka, Op
cit,
soprattutto pp. 351-354.
4.
R. Calasso, Op
cit,
pp. 180-182.
5.
W. Benjamin, Angelus
Novus,
a cura di R. Solmi, Einaudi, Torino, 1962, pp. 267-285.
6.
R. Calasso, Op
cit,
p. 182.
7.
G. Agamben, Idea
della prosa,
Quodlibet, Macerata, 2013, pp. 97-103.
8.
F. Kafla, Op
cit,
pp. VII-XI; è Giulio Raio a parlare di carattere
di chiave per
ciò che riguarda la scrittura kafkiana